Partiti gli americani: l’Iraq resta nel caos


Luciano Scalettari


Il governo di unità nazionale rischia di collassare, squassato da una gravissima crisi politica, mentre Baghdad viene devastata da una serie di attentati coordinati in vari punti della città: ieri, 22 dicembre, 14 ordigni esplosi quasi contemporaneamente hanno provocato 63 vittime e 180 feriti, scatenando il panico in tutta la capitale.


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Partiti gli americani: l'Iraq resta nel caos

L’Iraq, a pochi giorni dalla partenza del contingente militare statunitense, sembra scivolare di nuovo verso il caos. Il governo di unità nazionale rischia di collassare, squassato da una gravissima crisi politica, mentre Baghdad viene devastata da una serie di attentati coordinati in vari punti della città: ieri, 22 dicembre, 14 ordigni esplosi quasi contemporaneamente hanno provocato 63 vittime e 180 feriti, scatenando il panico in tutta la capitale.

Il timore è che, con l’uscita di scena delle truppe americane, riprendano gli scontri tra la componente sunnita e quella sciita, com’era avvenuto in passato. Tutti gli attentati hanno preso di mira obiettivi civili e aree popolate, sia in quartieri sciiti che sunniti. «L’intento», ha detto il generale Kassim Atta,  responsabile per la sicurezza della capitale irachena, «è quello di minare la fiducia della popolazione nella capacità delle nostre forze di mantenere la sicurezza dopo la partenza degli americani».

La bomba che ha provocato il maggior numero di vittime (13 morti e 36 feriti) è deflagrato nella sede della Commissione Governativa per l’Integrità, nel distretto di Karrada: un attentatore suicida si è lanciato con un’automobile imbottita di esplosivo contro l’edificio. In tutto sono scoppiate sei auto-bomba, contemporaneamente a cariche di altro tipo. Ma altri cinque veicoli imbottiti di esplosivo sono stati individuati in tempo e le forze di sicurezza sono riuscite a evitare lo scoppio.

Attentati sono avvenuti nei quartieri centrali di Alawi e Bab al Mudham, in quello sciita di Shula (nel nord-ovest della città), ma anche in quello sunnita di Adhamiya, in quello meridionale di Abu Dashir, nel distretto di Amil e in quello di Waziriya.

Quanto alla tensione politica, è acutissima. Nei giorni scorsi, nell’ambito di un'inchiesta per atti di terrorismo, è stato emesso un mandato di cattura nei confronti del vice presidente – sunnita – Tareq al Hashemi (che tuttavia, per il momento, non è raggiungibile dalla polizia perché si trova nella regione autonoma del Kurdistan iracheno), mentre il primo ministro sciita, Nuri al Maliki, ha chiesto al Parlamento di ritirare la fiducia al vice premier, anch’egli sunnita, Salih al Mutlaq, dopo che quest’ultimo aveva definito il capo del governo «un dittatore peggiore di Saddam Hussein».
La risposta del partito sunnita-laico Iraqiya, di cui fanno parte sia Hashemi che Mutlaq, è stata il ritiro dei propri deputati dai lavori del Parlamento e dei ministri dalle riunioni del governo di unità nazionale.

«Il momento scelto per gli attentati», ha dichiarato il premier Maliki, «conferma a tutti i dubbiosi la natura politica e gli obiettivi che il nemico cerca di conseguire». E il suo rivale, il leader del partito Iraqiya Iyyad Allawi, gli ha ribattuto accusando le forze di sicurezza di non essere state in grado di prevenire gli attentati «perché occupate a sabotare il processo politico», con un chiaro riferimento al mandato d'arresto spiccato nei confronti del vice presidente Hashemi.

La crisi, nonostante gli appelli «alla calma e al dialogo tra le parti politiche e confessionali» lanciati dal presidente iracheno Jalal Talabani, rischia di compromettere l’accordo faticosamente raggiunto nel dicembre 2010, nove mesi dopo le elezioni politiche, che ha permesso la formazione del governo di unità nazionale con la partecipazione delle due principali formazione politiche, quella d’ispirazione religiosa sciita di Maliki e quella che riunisce sunniti e laici guidata dall’ex premier Iyyad Allawi.

E se quell’accordo dovesse cadere, l’Iraq sarebbe sull’orlo del baratro di una inarrestabile guerra civile. Di sicuro, gli americani non tornerebbero indietro.

Fonte: www.famigliacristiana.it
22 Dicembre 2011

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