Obama: “Stato palestinese e pace entro il 2011”
Stefania Podda
Uno Stato palestinese e la pace nella regione entro due anni. E’ la proposta che Barack Obama avrebbe fatto a Benjamin Netanyahu, in occasione dell’incontro che i due ebbero a Washington lo scorso mese.
Un incontro che non andò benissimo, e che servì piuttosto a registrare la distanza tra i due alleati storici. Il premier israeliano era arrivato alla Casa Bianca sperando di convincere il presidente a ribaltare le sue priorità, mettendo da parte la questione palestinese per focalizzarsi sul problema del nucleare iraniano, imponendo a Teheran un ultimatum. Obama aveva risposto picche, rifiutandosi di mettere una data di scadenza a un dialogo appena avviato e aveva ribadito l’appoggio statunitense alla formula dei “due popoli, due Stati”. Un principio che, sino a questo momento, il premier israeliano non ha mai appoggiato in modo esplicito, limitandosi a parlare con vaghezza di un’entità territoriale palestinese. Nella conferenza stampa congiunta, le divergenze tra i due erano apparse evidenti, pur nella ritualità delle dichiarazioni di principio sull’imperitura amicizia tra i due paesi. La diffidenza israeliana è quindi cresciuta con il discorso del Cairo, commentato dal governo di Tel Aviv con poche, secche, righe di comunicato ufficiale. Ora i contorni di quello che dovrebbe essere il piano che Obama ha in mente per mettere la parola fine al conflitto israelo-palestinese sono in un articolo del quotidiano arabo in lingua inglese, “al-Sharq al-Awsat”, che racconta come lo stesso piano sia stato presentato anche al presidente egiziano Hosni Mubarak, al capo dei servizi segreti Omar Suleiman e al ministro degli Esteri Ahmed Abdul Gheit. Con la scelta di parlare al mondo arabo e musulmano dall’università del Cairo, Obama ha riconosciuto il ruolo di mediazione svolto dall’Egitto. In questi giorni Mubarak avrebbe intensificato gli sforzi, e chiesto l’aiuto di alcuni paesi arabi, per far ripartire il dialogo tra Fatah e Hamas, e arrivare infine ad un governo di unità nazionale. La frattura tra le due anime palestinesi è uno degli ostacoli sulla strada della trattativa, e per questo l’Egitto ha organizzato per il 17 al Cairo una riunione straordinaria dei ministri degli Esteri che parleranno della riconciliazione tra i palestinesi e del discorso di Obama. Discorso che anche Hamas, al di là delle solite dichiarazioni di condanna, ha ascoltato con interesse. Anche Damasco non ha fatto cadere nel vuoto l’invito a un “nuovo inizio” arrivato dal presidente democratico. Ieri le emittenti turche riferivano della disponibilità di Damasco a riavviare i colloqui di pace indiretti con Israele, colloqui avvenuti con la mediazione di Ankara e interrotti a fine anno, dopo l’avvio nella Striscia di Gaza dell’operazione “Piombo fuso”. L’apertura di Damasco sarebbe stata esplicitata alla Casa Bianca dal ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu, durante la sua recente visita a Washington. Il ministro sarebbe stato incaricato dal governo siriano di riferire all’amministrazione americana di essere pronto a tornare al tavolo delle trattative. Resta da vedere che cosa risponderà Israele, visto che una delle prime sortite del ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, ha riguardato proprio la Siria e il rifiuto di restituirle il Golan, precondizione di qualunque negoziato passato e futuro.
Per Washington la disponibilità siriana è una sponda preziosa. A differenza del suo predecessore George W. Bush, Obama considera il dialogo con Damasco molto importante per la stabilità della regione e sin dal suo insediamento ha lavorato per riportare la Siria al tavolo, sottraendola così all’influenza iraniana.
In Israele, intanto, il governo Netanyahu deve decidere come muoversi. Il premier – che deve fare i conti con il malumore, di segno diverso, delle varie anime della sua coalizione – non può rischiare di arrivare a uno scontro frontale con Washington. E però la questione del blocco degli insediamenti chiesta da Obama nell’incontro alla Casa Bianca e quindi ribadita nel discorso del Cairo, mette Netanyahu di fronte alla possibilità di una rottura con la destra religiosa di Shas e affini, ma anche con quella ultranazionalista di Lieberman. Se non ci sarà Kadima a soccorrerlo – anche in questo caso i numeri sono contati -, il suo governo non durerà molto. Per il momento cercherà di temporeggiare, ma la fretta di Obama di chiudere gli gioca contro.
Fonte: Liberazione
10 giugno 2009