Noi, i figli e il lavoro che non c’è
Francesco Anfossi, Famiglia Cristiana
Con il sociologo Diotallevi oggi il primo degli appuntamenti dedicato a “Famiglia, lavoro e festa”, alle 21 nell’auditorium Don Alberione di via Giotto 36, a Milano.
“Fare famiglia con il lavoro che non c’è: giovani e il lavoro”. Entra subito nel vivo e nella crisi che stiamo vivendo il primo incontro di Famiglia, lavoro e festa promossi da Famiglia Cristiana con Cisf, Acli, Mcl e Arcidiocesi di Milano. A parlarcene, nell’auditorium Don Alberione, in via Giotto 36 (alle ore 21) sarà Luca Diotallevi, docente di Sociologia, esperto di giovani e partecipazione politica. “La disoccupazione giovanile", spiega Diotallevi, "ha raggiunto cifre mai verificatesi nel Dopoguerra. E le ragioni sono due. La prima è perché i giovani hanno poche opportunità rispetto al passato. Ed è una motivazione legata al mercato occupazionale, alla crisi, alla particolare forma dell’economia italiana, in cui predomina il settore statale e sono poche le aziende capaci di stare sul mercato”.
– E la seconda?
“La seconda è più profonda, forse addirittura più importante. Abbiamo perso la cultura giusta per occuparci dei nostri figli. Li guardiamo con compiacimento e protezione, anziché con autorità”.
– L’autorità aiuta a trovare un posto di lavoro?
“Certo, perché il lavoro, quello vero, quello basato su motivazioni vocazionali, quello che ci piace, non ce lo garantisce nessuno. Ce lo possiamo solo inventare. Per averlo, per poter sviluppare quelle doti necessarie a conquistarcelo, dobbiamo sviluppare una forza interiore. E per sviluppare una forza interiore abbiamo bisogno di un’autorità con cui confrontarci”.
– Insomma il padre (o la madre), invece di compiangerli deve intimare ai propri figli: studia, studia ragazzo mio, se vuoi trovare un lavoro.
“Non necessariamente. Il padre e la madre gli devono dire: se vuoi studiare devi portare i risultati, altrimenti, se non vuoi studiare, dopo i diciotto anni, ti trovi un lavoro e ti guadagni la vita. E’ attraverso questo confronto che si cresce, che si matura, che si affrontano quei sacrifici che ci insegneranno a vivere e a lavorare. Questo lo sostengono tutti i pedagogisti, da Platone a Gramsci, per non parlare dei pensatori cattolici. E’ questo il senso della priorità che il Papa ha suggerito a proposito dell’emergenza educativa. Senza l’incontro con l’autorevolezza, il giovane non cresce”.
Ma i padri cosa devono offrire ai loro figli per aiutarli a trovare lavoro, a parte l’autorevolezza?
“Noi adulti dobbiamo offrire ai giovani opportunità che oggi non hanno. Se guardiamo al mercato del lavoro giovanile odierno c’è da mettersi le mani nei capelli. Le corporazioni riducono i giovani avvocati, i giovani ingegneri, i giovani architetti in condizioni di servi della gleba. Sempre che riescano ad abbracciare queste professioni liberali. Perché se guardiamo al tasso di ereditarietà delle professioni liberali in Italia, siamo di fronte a un fenomeno impressionante. L’avvocato può farlo solo il figlio di avvocato, l’imprenditore può farlo solo il figlio dell’imprenditore. Noi abbiamo una delle mobilità sociali più basse del mondo, siamo un Paese feudale. E’ dagli anni ’70 che l’ascensore sociale non funziona più. Negli anni ottanta siamo cresciuti economicamente e socialmente, mantenendo le distanze interne”.
– Che significa mantenere le distanze interne?
“Significa che i poveri e i ricchi hanno avuto un pochino di più ma non è successo quello che è successo negli anni Cinquanta e Sessanta, quando le posizioni di reddito e di cultura si sono addirittura invertite”.
– Ma non si salva proprio nessuno?
“Pochi. Quanti anni ha lei? Lei faccia il conto di quello che faceva suo padre, suo nonno. Vedrà che dal punto di vista del reddito e dell’istruzione tra nonno e padre c’è uno scarto enorme. Ma tra suo padre e lei lo scarto non sarà poi così alto. Se poi consideriamo il futuro dei nostri figli, allora vedrà che rischiamo addirittura la regressione”.
– Come facciamo a uscire da questa palude sociale e generazionale?
“Dobbiamo accettare la competizione. La nostra grande risorsa è la cultura della nostra tradizione economica, che ci dà una grande capacità di affrontare le situazioni difficili. Ancora una volta dobbiamo rimboccarci le maniche e ripartire”.
Fonte: Famiglia Cristiana
15 gennaio 2012