Nakba. Kufr Bi’rem resiste tra distruzione e esilio
Chiara Cruciati - Nena News
La storia del villaggio palestinese a Nord della Galilea: i rifugiati “ritornati” minacciati dal nuovo ordine di evacuazione emesso dalle autorità israeliane. Ma non cedono: “Resteremo”.
«Abbiamo tempo fino al 25 maggio. Dopo di che, ogni giorno potrebbe essere quello dell’evacuazione forzata. La polizia e l’Autorità della Terra israeliana potrebbero venire in qualsiasi momento per distruggere quanto abbiamo costruito. Che lo facciano pure, noi non ce ne andiamo».
Wassim Ghantous non pare avere dubbi: il villaggio dei rifugiati ritornati non cederà. Nemmeno dopo la decisione della corte distrettuale che impone lo sgombero del villaggio distrutto di Kufr Bi’rem. I profughi hanno risposto per ora per vie legali, con un appello all’Alta Corte israeliana perché blocchi la sentenza.
La nuova vita di Kuf Bi’rem è cominciata ad agosto 2013. Villaggio palestinese cristiano nel profondo Nord della Galilea, ad una manciata di chilometri dal Libano, tre secoli di vita, dal 1948 combatte la sua Nakba. Da 66 anni a questa parte Kufr Bi’rem non si è arreso alla devastazione e all’esilio. La storia dei 1.050 palestinesi che abitavano allora il villaggio la racconta al manifesto Yousef Issa, conosciuto da tutti come Abu Malek. Siede di fronte a noi, in giacca e panciotto. Si appoggia ad un bastone, schiarisce la voce: «La nostra vita scorreva serena, eravamo una comunità contadina, vivevamo di agricoltura e pastorizia. La piazza del paese era sempre piena di gente durante le feste religiose e i matrimoni, eravamo una grande famiglia. Poi arrivò la guerra. Avevo 12 anni».
Il 29 ottobre 1948, sei mesi dopo la creazione dello Stato di Israele, le nuove autorità lanciano l’operazione Hiram, nell’obiettivo di occupare la Galilea: attacchi ai civili, massacri, fosse comuni. In 60 ore, l’esercito israeliano conquista la zona al confine con il Libano: dei 60mila palestinesi residenti, ne restano 15mila. Gli altri fuggono, chi nel Paese dei Cedri, chi in Giordania.
«Le truppe israeliane entrarono nel villaggio – ricorda Abu Malek – I rapporti con loro erano buoni. Così quando ci dissero di lasciare il villaggio per due settimane per motivi di sicurezza, gli credemmo. Siamo andati via senza portare nulla con noi, nella convinzione che saremmo tornati di lì a poco. Non tornammo più». I 1.050 residenti, ormai profughi, trovarono rifugio nel vicino villaggio di Jish, a Haifa ed Akko. La metà fuggì in Libano.
«La gente si organizzò subito: sit-in, proteste, marce. Vennero arrestati tutti e portati a Safad. Era inverno e faceva molto freddo. Gli uomini vennero caricati su delle jeep e portati al confine con la Giordania». Nel 1949 i rifugiati presentano una petizione alla Corte Suprema israeliana, che nel 1951 dà loro ragione: non esistendo ragioni legali per lo sgombero, Tel Aviv deve permettere ai rifugiati il ritorno a Kufr Bi’rem. Una sentenza inaccettabile per il neonato Stato di Israele che ordina il bombardamento del villaggio: nel 1953 l’aviazione distrugge Kufr Bi’rem, sotto gli occhi attoniti dei rifugiati che assistettero inermi dalla collina accanto all’annientamento della loro comunità.
«Da subito i rifugiati lanciarono una campagna di appelli ai tribunali e sit-in – spiega al manifesto Wassim – Nel frattempo Israele continuava le confische e nel ‘65 dichiarò le terre del villaggio parco nazionale, controllato dal Jewish National Fund».
Negli anni ‘80 i rifugiati tornano per campi estivi e feste popolari. Fino all’agosto 2013: al termine dell’ultimo campo decidono di restare. «Abbiamo ristrutturato la scuola e la chiesa, costruito una cucina e utilizzato due stanze come camere da letto – continua Wassim – Ci siamo divisi in gruppi, ognuno si occupa di ripulire un quartiere e dormire qui per mantenere la presenza. Siamo tanti, di ogni età: ci sono gli anziani che furono cacciati nel 1948 e i loro nipoti ».
Tra loro Mira, 19 anni, studentessa universitaria: «Ogni settimana organizziamo attività per i più piccoli, abbiamo creato un comitato. Sono legata a questo posto, è la mia casa anche se non ci ho mai vissuto. I miei genitori e i miei nonni hanno sempre mantenuto vivo questo sentimento: non lo faccio solo per amore, ma per dovere. È mia responsabilità lottare per il ritorno».
Un ritorno messo in pericolo oggi dal nuovo ordine di evacuazione che prevede la demolizione di tutte le nuove strutture create a Kufr Bi’rem, compreso il piccolo orto accanto alla chiesa. La corte distrettuale ha stabilito poche settimane fa lo sgombero forzato, da mettere in atto entro il 25 maggio. Ma ai rifugiati ritornati non importa: «La nostra resa – conclude Abu Malek – se la sognano. Se ci cacciano, torneremo come abbiamo sempre fatto».
Fonte: http://nena-news.it
15 maggio 2014