Missioni, non è cambiato nulla!
Tommaso Di Francesco - Il manifesto
Libia e non solo. L’approvazione anche stavolta arriva da una sovra-coalizione patriottica, e anche stavolta in aperto dispregio della nostra Costituzione che «ripudia la guerra» e delle nostre leggi (che vietano la vendita di armi a paesi in guerra e che violano i diritti umani)
In fondo non è successo nulla di nuovo. E questo è davvero grave. Il voto in Senato sulla Libia, dove riconosciamo come interlocutore istituzionale la cosiddetta «guardia costiera libica», è stato bipartisan, come è quasi sempre accaduto dalla guerra in Iraq del 1991. L’approvazione anche stavolta arriva da una sovra-coalizione patriottica, e anche stavolta in aperto dispregio della nostra Costituzione che «ripudia la guerra» e delle nostre leggi (che vietano la vendita di armi a paesi in guerra e che violano i diritti umani).
Ben 260 sì, 142 della maggioranza che sostiene il governo Conte e 118 delle opposizioni di destra.
Benvenuta dunque la pattuglia – che ci piace definire «di sinistra» – di 14 senatori che hanno detto no e i due che si sono astenuti. Ma può bastare a fare chiarezza sul ruolo del governo Conte? Francamente no, perché appare chiaro a tutti che così torna in auge l’ex ministro Minniti che in un altro agosto, nel 2017, avviò il «modello» per la Libia: finanziamento delle milizie locali libiche – centinaia dopo la guerra Nato del 2011, bande di predoni che controllano le città della costa, legate ai traffici più ambigui quando non allo jihadismo e che ora spadroneggiano impegnate nella guerra civile contro l’autoproclamato leader della Cirenaica Haftar; milizie pronte ad indossare la casacca della fantomatica «Guardia costiera» per fermare, per noi e da noi pagate, la fuga disperata dei profughi.
Che, in fuga dall’Africa profonda dell’interno attraversata da guerre e miserie delle quali siamo spesso responsabili, arrivano in Libia e lì vengono bloccati e catturati – impossibilitati ad essere soccorsi mentre il Mediterraneo è diventato la fossa comune dei loro tentativi – e poi finiscono inesorabilmente in detenzione nei campi di concentramento e nelle prigioni. Per le violazioni libiche dei diritti umani non si contano i documenti di condanna, prove alla mano, delle Nazioni unite verso il ruolo dell’Italia e dell’Ue che plaudì al modello Minniti.
È stata l’esternalizzazione delle frontiere europee assegnate in Libia a bande criminali o a milizie paramilitari – sarà così anche per la Turchia del Sultano Erdogan.
Il tutto, spiegava l’allora ministro Marco Minniti – rimpianto da una infinità di editoriali del «sinistro» Il Fatto quotidiano – che così facendo «si salvava la democrazia e lo stato di diritto in Italia» minacciati dalla destra populista anti-migranti. Insomma chiudere in campi di concentramento e in galere la condizione di migliaia di esseri umani, serviva alla nostra democrazia. Come sappiamo l’operato di Minniti è servito al contrario solo ad aprire la strada al pericoloso razzismo-sovranismo di governo dell’ex ministro degli interni Matteo «voglio i pieni poteri» Salvini, scatenato poi nella battaglia contro le Ong corse in mare in aiuto dei migranti.
Questa «filosofia» concentrazionaria di stile imperial-coloniale torna ora d’attualità nelle missioni militari riproposte dal governo Conte – che certo le eredita da altre, precedenti stagioni bipartisan e avventure belliche, ma così facendo le rilancia in grande stile.
Ora dopo il Senato il provvedimento sarà approvato nello stesso modo alla Camera, magari sempre agitando la chiacchiera inascoltabile e cara a Di Maio – diventata la mediazione nella coalizione di governo – della «promessa di Tripoli di modificare il Memorandum per salvaguardare i diritti umani».
Intanto sull’intero, negativo pacchetto delle missioni militari è silenzio. Perché non si tratta «solo» di Libia e il tutto accade nel periodo post-Covid ma sempre in emergenza.
Una fase che suggerirebbe tutt’altro che spendere più di 2 miliardi di euro per più di 8.500 soldati impegnati in avventure belliche che riproducono se stesse, che non ci difendono dal terrorismo ma lo alimentano, che subordinate ad altre leadership mettono a repentaglio i nostri interessi strategici, che accrescono solo il mercato delle armi che ci vede brillare per produzione ed export. Unica eccezione positiva, da sostenere, sarebbe l’Unifil in Libano, di interposizione e non a caso prodotto di una politica estera italiana per il Medio Oriente.
Ma dopo 19 anni di occupazione militare dell’Afghanistan, il Parlamento ha mai discusso sul senso di questa guerra infinita al seguito di Stati uniti e Nato?
Restando alla Libia: possiamo essere servi di due padroni committenti – come ha scritto su il manifesto Alberto Negri – , dando armi su un fronte al golpista egiziano al-Sisi che bombarda in queste ore in Libia le forze turche che sostengono a Tripoli il «nostro» al-Sarraj, e sull’altro fronte trafficare in armi con l’alleato atlantico Erdogan che lavora alla spartizione del Paese, perdipiù lasciando nel mezzo, a Misurata, 300 militari italiani e un ospedale da campo ormai retrovia della guerra civile in corso?
Dov’è la politica estera ridotta ai budget del complesso militare industriale, privato e di Stato? E che senso ha imbarcarsi nella nuova missione nel Sahel al seguito di Macron nella sanguinosa, quanto taciuta, guerra in Mali, Niger e Chad? Magari con l’intento di contenere la disperazione dei profughi a nord con la guardia costiera libica, e al sud con truppe fresche che «vigilano» lungo un confine di 5mila chilometri? È una assurdità. Ma una assurdità bipartisan.
Non è cambiato nulla, lo stile è tardo-coloniale.
Del resto come definire una concezione di governo che, in piena globalizzazione, fa vanto e s’ingegna per garantire nei percorsi ardui del potere finanziario internazionale, i fondi per elargire magro welfare e «grandi opere» all’interno del «proprio» paese, mentre all’esterno delle nostre ristrette frontiere, il dividendo per gli ultimi della terra è fatto di campi di concentramento, galere, torture e guerre chiamate «missioni militari»?
Tommaso di Francesco
Il Manifesto
9 luglio 2020