Medio Oriente. Il disgelo
Janiki Cingoli
Da alcuni giorni è iniziata a Gaza la tregua tra Israele ed Hamas, grazie alla paziente mediazione dell’Egitto e del capo dei suoi servizi segreti, Omar Suleiman, che dovrebbe essere accompagnata da un allentamento della chiusura ai valichi di frontiera.
Le notizie dal Medio Oriente testimoniano di una iniziale frattura della rigida impalcatura ideologica entro cui l’intera area si è trovata costretta durante la Presidenza Bush.
Da alcuni giorni è iniziata a Gaza la tregua tra Israele ed Hamas, grazie alla paziente mediazione dell’Egitto e del capo dei suoi servizi segreti, Omar Suleiman, che dovrebbe essere accompagnata da un allentamento della chiusura ai valichi di frontiera.
In una seconda fase, che dovrebbe culminare con lo scambio tra il caporale israeliano Shalit e un folto gruppo di prigionieri palestinesi, è prevista la riapertura stabile di tali valichi, con la presenza di forze di sicurezza dell’ANP (che inizierebbero così a rientrare a Gaza), egiziane ed europee. Tra sei mesi, poi, se la tregua dovesse reggere, essa potrebbe essere estesa anche alla Cisgiordania.
E’ evidente che tutto ciò comporta una notevole stabilizzazione del potere su Gaza di Hamas, che d’altronde ha dimostrato di saper far fronte, anche rafforzandosi, al lungo blocco economico imposto sulla Striscia dopo la sua presa di potere, dell’estate 2007.
Parallelamente, a breve è annunciato un nuovo incontro al Cairo tra delegazioni di Fatah e Hamas, dopo i contatti dei mesi scorsi nello Yemen e in Senegal, ed il recente appello del Presidente Abu Mazen per superare la frattura interpalestinese, ed arrivare a ricostituire un governo di unità palestinese. All’origine della nuova posizione del Presidente dell’ANP, che lo a portato a superare la ferma pregiudiziale mantenuta fino a tempi recenti, con la richiesta preliminare di ripristinare la situazione precedente il colpo, restituendo Gaza al controllo della legittima autorità, vi è probabilmente la situazione di stallo del negoziato ufficiale con Israele che ha fatto seguito alla Conferenza di Annapolis, e il ripetuto annuncio della costruzione di nuove abitazioni negli insediamenti ebraici intorno a Gerusalemme: annuncio che si è attirato anche la ferma condanna di Condoleeza Rice. Così come influi sce sicuramente la sempre più precaria situazione interna israeliana, con un leader sempre più in bilico, anche se pare ancora resistere come la Torre di Pisa.
Se i tempi del negoziato si allungano, diventa prioritario per i palestinesi rafforzare le linee interne, per presentarsi più forti e meno esposti ai futuri appuntamenti.
In questi stessi giorni, vi sono notizie sempre più incalzanti sull’accordo che sarebbe stato raggiunto tra Israele e Hezbollah, per lo scambio tra alcuni prigionieri libanesi e i due soldati israeliani catturati nel luglio 2006, che sarebbero rilasciati a giorni, non si sa se ancora vivi. E contestualmente si moltiplicano le pressioni statunitensi e egiziane su Israele perché si ritiri dalla piccola zona ancora contesa ai confini con il Libano, le Fattorie di Shebaa. Pressioni che si propongono di consolidare le posizioni del moderato Sinora nei confronti dello stesso Hezbollah, uscito rafforzato dal lungo braccio di ferro per l’elezione del nuovo Presidente libanese Michel Suleiman, grazie al potere di veto di fatto concessogli sui principali atti di governo.
Infine, da un mese è stato ufficialmente annunciato l’avvio di negoziati indiretti tra Israele e Siria, grazie alla mediazione turca, il cui ultimo round si è concluso nei giorni scorsi con una comune soddisfazione espressa dalle parti. La Siria si sente più sicura anche per l’esito del prolungato confronto libanese, che come si è detto ha rafforzato il suo principale partner, l’Hezbollah che ora è in grado di bloccare ogni decisione governativa di andare più a fondo sulle indagini per l’assassinio dell’ex presidente Hariri.
Sullo sfondo, resta la minaccia iraniana, che Israele agita incessantemente in tutti i suoi contatti internazionali, non senza ragione, ma con una posizione che non prende sufficientemente atto del cambiamento strategico in atto negli Stati Uniti verso Teheran, dalla vecchia posizione di confrontation a breve a una politica di conteinement di medio periodo, il che implica un riassetto, una stabilizzazione e una ridefinizione dei rapporti diplomatici e di sicurezza in tutta l’area. Come commentava nei giorni scorsi un editoriale di Haaretz, l’insistenza israeliana sul tema finisce per essere percepita come un elemento che alimenta la tensione, invece di contribuire a risolverla. Lo Stato ebraico, in sostanza, passa un po’ come l’ultimo soldato giapponese, che non sa che la guerra è finita.
Se questo è il quadro, non si può negare che la campagna del Presidente Bush contro l’”Asse del Male” non abbia prodotto esattamente i risultati sperati.
Fonte: www.cipmo.org