Ma esiste ancora l’Iraq?
La redazione
Il sito www.perlapace.it propone l’articolo pubblicato nei giorni scorsi da "il Manifesto" di Ennio Remondino sulla situazione irachena.
Entrare in Iraq è relativamente facile. Molto più difficile, e lo sa bene George W. Bush, è uscirne. Anche dal nord che si affaccia sulla Turchia, sino all’altro ieri isola felice nel bordello americano del resto dell’Iraq. Entro da Cizre, triste cittadina turca che spartisce le sponde del Tigri con un pezzo di Siria, prima di portarti al confine iracheno di Silopi. Da queste parti anche le autovetture hanno il passaporto. Autista turco autorizzato, ovviamente di origine e lingua curda, che non sai per chi faccia la spia: Ankara, Baghdad o il governo curdo iracheno che è il terzo incomodo?
Tre ore per entrare in Iraq, ma sei per uscirne, mentre il pensiero corre ripetutamente al povero Bush. Camionisti abituati che, sul lungo ponte che è terra di nessuno, adeguatamente attrezzati, pescano dall’affluente del Tigri il loro prossimo pranzo. In Iraq ci accoglie un giovane e poliglotta ufficiale in borghese. Vuol sapere le nostre mete, “per aiutarvi”, ovviamente, e poi ci avverte di non scendere più a sud di Kirkuk. “Lì, la gente come voi la rapiscono e volte la scannano pure”. Lo rassicuriamo che non siamo intenzionati a dare simili dispiaceri al nostro governo. Alla fine della cerimonia del “Cay”, neri per il ritardo come il tè scuro che accompagna ogni ospitalità orientale, chiediamo del contrasto al Pkk. “A loro il Kurdistan iracheno deve gran parte della propria esistenza”, ci ricorda l’ufficiale. Dubbio personale: chi è che da Baghdad promette ad Ankara l’impossibile?
Finalmente nell’Iraq che dal confine ti porta a Zakho, col portale a otto corsie dell’ex impero di Saddam Hussein che bene conosciamo. Con alcune novità. Un Benvenuti, in lingua inglese, che ci accoglie in Kurdistan. Kurdistan e non Iraq. Nessuna bandiera irachena in vista, ma attorno soltanto il tricolore italiano messo in orizzontale e con un sole al centro: la bandiera del Kurdistan. Dove diavolo sarà finito l’Iraq? La mia volta precedente, su quel confine, c’era ancora un gigantesco mosaico di Saddam sorridente. Ora ci accoglie una gigantografia di Barzani senior, il padre della resistenza curda contro Saddam. Il figlio, Balzani junior, da capo del governo autonomo, la sua politica indipendentista la rivolge più alla Turchia. Dev’essere la maledizione delle Grandi Famiglie che grava su questa terra infelice, visto che la mia prima volta, 1991, la guerra d’allora era comandata dall’altro Bush, senior.
A Zakho, cambio di autista-guida e cambio di spia al seguito. L’amico Maslah è un omone in splendido costume curdo, come un Barzani padre ringiovanito. Più che parlare urla, per abitudine al comando. Alla fine del nostro viaggio, avendo saputo di nostre precedenti incursioni su quel territorio, ai tempi delle bombe chimiche di Saddam e tra i guerriglieri Peshmerga, ci confessa il suo passato combattente tra le file della guerriglia anti Saddam. Anche i dieci anni di galera ad Abu Grahib, lo stesso carcere dove gli americani hanno aggiornato le pratiche di tortura rimaste all’artigianato crudele di Saddam. “Ce l’abbiamo fatta contro di Lui (Saddam), figuriamoci se abbiamo paura dei turchi”, minaccia.
A Dohuk, il capoluogo della provincia di confine, sulla strada verso il Petrolio di Mossul e di Kirkuk, incontro il vice governatore. Cortesia costretta dalla logica infinita dei permessi che nessuno ti dice ufficialmente che occorrono (“Qui ora c’è la democrazia”), ma senza i quali non vai da nessuna parte. Sul palazzo del potere locale e sulle mostrine dei militari di guardia, sempre e solo il tricolore curdo. Di Iraq neppure l’ombra. Il nostro ospite, Shlaymoon Kaaee, parla un discreto inglese e conosce l’Italia. Ha lavorato, ai tempi di Saddam, con molte ditte italiane di import export, conosce Milano, Parma, il nord della nostra industria, e ci accoglie con un “Buongiorno”. Scopriamo che fa parte della comunità siriaco-cristiana e che, dal suo essere eterna minoranza in Iraq, alla fin fine risulta il solo “iracheno” che abbiamo incontrato ed incontreremo in questo viaggio.
“Molti dei villaggi su cui ha sparato l’artiglieria turca, sono villaggi cristiani. Una montagna impossibile dove molti di noi, in fuga dal terrore di Baghdad, avevano sperato di trovare un rifugio da cui altri erano fuggiti per la miseria”, ci spiega il vice governatore. Grazie alle sua indicazione e alla raccomandazione ai Peshmerga sul confine, viaggiamo per quelle montagne. Pochi chilometri e potresti trovarti, a scelta in Turchia o in Iran. Arranco su qui sentieri da capre, e mi viene in mente di trovarmi esattamente al centro di quell’Inferno immaginato da Bush, popolato da tanti Stati Canaglia. Attorno noi vediamo soltanto montagne bellissime ed impervie, vecchie caserme di Saddam, vediamo l’invisibile Pkk contro cui Miky Stoijcic, il mio serbo di tante guerre, non può puntare la sua telecamera, e tanta, troppa povertà.
E’ un ragazzino a farci da guida verso i crateri dei proiettili d’artiglieria. Cannonate di poco conto, dal buco, ma con tracce d’incendi tutt’attorno e tante schegge metalliche con cui altri ragazzini giocano. Speriamo non siano stati proiettili all’uranio impoverito. Sotto, tra le case di Enishki che assomigliano a tante baracche o a baracche che hanno alcune pareti di mattoni, donne vecchie di 30 anni e una miriade di bambini da bazar degli stracci. In qualche modo, con l’arabo di Michele Onnis, il producer, riusciamo a capire della loro disperazione. La fuga da un Iraq dell’abbondanza, al sud, anche se sottoposti alla perenne minaccia di Saddam, per arrivare alla catastrofe della “liberazione” del dopo, poi la fuga verso il nulla. Intravediamo, su un tetto piatto, una croce e una piccola campana. Stupiti, scopriamo una sorta di chiesetta affidata alle cure di una famiglia. Nessun “Abuna” attorno, nessun Padre, o prete, ma le tracce fotocopiate di qualche preghiera forse comune a noi, ma scritta in arabo. “E se arrivano i Turchi, dopo tutto il resto, dove possiamo scappare noi ? L’Iraq ormai non c’è più, e non c’è neppure la pietà”.
Al bazar di Dohuk scopriamo i primi militari statunitensi della nostra incursione oltre frontiera. O imboscati, o raccomandati, o in licenza premio prima di tornare al macello di Baghdad,. Mimetiche da deserto senza bardatura da battaglia, con una scorta di due di loro col fuciletto imbracciato in tutto relax, si aggirano tra i banchi di frutta esotica dove mostrano di aver imparato a contrattare. Il dubbio d’inizio ti assale ancora: ma dove è finito sto cavolo di Iraq?
La Zakho che avevo conosciuto 15 anni fa, s’è intanto moltiplicata per quattro (“profughi dal sud”, mi spiegano), un brulicare di attese e il via vai dei convogli di camion sgangherati che attraversano da sempre qualsiasi fronte di guerra nella cultura antica delle carovane. Moderni cammellieri che ritrovi al confine, incolonnati all’infinito, nei dieci giorni d’attesa per passare quell’invenzione moderna che è un confine. Più o meno come l’invenzione dell’Iraq che, il colonialismo, alla fine della prima guerra mondiale, ci ha regalato mettendo assieme le diversità etniche e religiose impossibili che sono state poi chiamate Iraq. Ed il dubbio personale si fa certezza.
L’Iraq è ormai una invenzione dell’amministrazione americana e della diplomazia internazionale. In quello che è stato sino all’altro ieri, e per breve tempo nella storia, l’Iraq, le realtà inconciliabili dei fatti, dei drammi e delle attese. Il fatto di un sud sciita che guarda ormai apertamente al confinante Iran, visto come la nuova Roma dell’obbedienza musulmana minoritaria. Il dramma del macello di Baghdad, da dove scappano tutti, meno di chi dovrebbe finalmente andarsene. E questo nord che soltanto l’ipocrisia del mondo si ostina ancora a chiamare Iraq. Con le mia sparuta squadra televisiva Rai, riattraverso il confine tra il Kurdistan e la Turchia per attrezzarmi a raccontare la prossima guerra tra questa montagne che l’Inferno immaginario di Bush riuscirà forse a trasformare in un vero inferno.