L’ultima battaglia di Calais
Valerio Cataldi
“Siamo qui perché nel nostro paese la situazione è fuori controllo e noi non abbiamo nessuna altra possibilità”. Questo è il messaggio di Amani, sedici anni, etiope di etnia Oromo. È arrivato a Calais un anno e mezzo fa, da solo.
La prima casa viene giù senza rumore. Semplicemente la spingono con le mani, come fosse il simbolo della fragilità di un villaggio senza fondamenta, fatto di legno e cartone, di sogni e di speranze.
La demolizione della giungla di Calais, inizia così, di fronte ad una folla di telecamere.
Come fosse un messaggio preciso delle autorità francesi per sottolineare che fanno sul serio, a sole trenta ore dall’inizio delle operazioni di sgombero.
Mentre cadono le case altre case vanno a fuoco. Le bruciano i migranti e i pompieri intervengono. Le fiamme per dire che non lasceranno niente sulla loro strada, nessuna traccia del passaggio e del villaggio effimero sul confine interno d’Europa, il confine blindato tra francia ed inghilterra.
L’ultimo censimento conta ottomila centoquarantatre abitanti. È scritto su un cartello all’ingresso della cosiddetta giungla. “Welcome to the jungle” c’è scritto. Sembra una lapide oggi, poggiata su una parete di cemento con un grande murales di un uomo con una valigia sulle spalle e una scritta che dice London calling.
È proprio all’inizio della giungla, nella striscia di terra che separa l’autostrada verso l’inghilterra dal campo profughi più grande d’europa. Su questa terra di mezzo si sono consumate le battaglie di Calais, come fossero un rito quotidiano: sassaiole contro lacrimogeni. La più violenta la sera prima dell’inizio delle operazioni di sgombero.
Oggi ci camminano centinaia di persone, ognuno con la sua valigia piena di speranza che trascina tra la polvere ed i bossoli dei gas lacrimogeni. Camminano ordinatamente nel caos della terra di mezzo. Lasciano la giungla dove hanno vissuto una parte di vita e una parte del sogno di riuscire ad arrivare in inghilterra. Quel sogno se lo portano via verso l’hangar allestito dalle autorità francesi per registrare i migranti e metterli sui pullman diretti nei 250 centri di accoglienza aperti apposta in tutta la Francia.
Lo spettacolo dello sgombero è organizzato nei minimi dettagli e inizia la mattina presto. Settecento giornalisti accreditati, ognuno con un passi appeso al collo come se si fosse ad un convegno.
Gli agenti sono tremila. Indossano una armatura che protegge la testa, le spalle, le caviglie. Giubbotto antiproiettile e manganello appeso dietro la schiena. Hanno tutti lo sguardo determinato e lo scudo a portata di mano.
Cercano di contenere quel corpo scomposto fatto di migliaia di vite che hanno camminato per migliaia di chilometri e cercano pace.
Amani è uno di loro, mi guarda negli occhi e dice: “Oggi, la giungla è finita. Si è finita, stanno per abbattere tutto. E io non so se devo essere triste oppure no. Io ed i miei compagni siamo minori e stiamo aspettando di chiedere asilo e di andare in inghilterra.”
Amani ha sedici anni è etiope, di etnia Oromo. È arrivato a Calais un anno e mezzo fa, da solo. È scappato dal suo paese dove gli Oromo sono perseguitati. “È un genocidio” dice con gli occhi lucidi e la voce di uomo. È uno dei 1300 minori arrivati su questo confine da soli, senza genitori. 400 di loro presto andranno un inghilterra sono gli unici cui è consentito di varcare quel confine.
“Abbiamo bisogno di essere trattati da rifugiati, di essere accolti e trattati con giustizia. Siamo qui perché nel nostro paese la situazione è fuori controllo e noi non abbiamo nessuna altra possibilità.”
Il messaggio di Amani, è il messaggio di tutti gli abitanti della giungla, scappati da fame e persecuzione, sopravvissuti al deserto, al mare e ai confini d’europa. Fermati in questo limbo per anni, oggi messi in fila con un braccialetto colorato al polso e portati via sui pullman turistici che hanno uno slogan in evidenza sulla fiancata: Au bout de vos rêves, alla fine dei vostri sogni.
Valerio Cataldi – www.articolo21.org
26 ottobre 2016