L’ordine è: uccidere Gheddafi
Tommaso Di Francesco - Il manifesto
Dopo le dichiarazioni del Cnt, si ricordano i tanti tentativi precedenti. Due memorabili: l’affare di Ustica e i raid Usa dell’aprile ’86. E Bob Woodward denunciava le veline della Casa bianca.
«Uccidere Gheddafi» è il titolo della sanguinosa cronaca di questi giorni dove, per farlo fuori, si uccidono tanti, troppi civili. Ma è stato anche all’ordine del giorno di molte cronache passate, diventando una sorta di paradigma massmediatico che dura da più di trenta anni. Tanto che se ne è occupata la storia, la letteratura, il cinema. Nel recente film hollywoodiano Siriana c’è un improbabile governo libico in esilio, con sede a Washington, pronto a prendere il potere a Tripoli dopo la morte del dittatore. E, naturalmente, è stato argomento principe del giornalismo, tanto da influenzarne storia, generi e autori.
«Non è il nostro obiettivo e non ci interessa che fine abbia fatto Gheddafi», hanno dichiarato all’inizio i portavoce delal Nato i cui aerei però incessantemente hanno bombardato da quasi sei mesi il compound di Bab Al Aziziya, luogo mitico della tenda del raìs aperta dentro l’omonima caserma sulla quale svettava, prima dell’arrivo degli insorti, un pugno che stringeva un jet. A memoria di un raid Usa del 15 aprile 1986 mirato proprio ad uccidere il Colonnello. Non vogliamo ucciderlo «però», si erano lasciati scappare Hillary Clinton e Ignazio La Russa; non è l’obiettivo, «sarebbe illegale e un’interpretazione abusiva delle risoluzioni dell’Onu» ha dichiarato perfino l’ex procuratore del Tribunale internazionale dell’Aja Antonio Cassese; «sbagliato ucciderlo, non è un terrorista internazionale» ha detto anche l’«umanitario» Massimo D’Alema.. E come dimenticare che bisogna consegnarlo al Tribunale penale internazionale dell’Aja, quello dei «vincitori» perché sia processato. Nessuno lo voleva o lo vuole morto, ma ogni giorno e per sei mesi tutti hanno provato e provano ad ammazzarlo. Così, visto che «non ci saranno vendette ma lavoreremo per fare giustizia», ha assicurato pochi giorni fa Jibril il primo e unico ministro del Cnt di Bengasi a Milano,esattamente il giorno dopo il Cnt di Bengasi ha annunciato una taglia da 1,6 milioni di dollari per la cattura, vivo o morto, di Muammar Gheddafi. E poco prima della caduta di Tripoli – per la quale il Comando congiunto della Nato da Napoli ha comunicato di avere effettuato in sei mesi l’inferno di «20mila raid aerei dei quali 8mila di attacco con bombe e missili» – era stato raso al suolo proprio il bunker del raìs di Bab Al Aziziya. Dove, da tempo, non c’era più nessuno, tantomeno Gheddafi. La cosiddetta «battaglia in corso» altro non è stata che un set televisivo per i media mondiali. Poi due giorni fa il raìs era dato a Sirte, e i jet britannici, fuori dal dettato della Risoluzione Onu 1973, hanno bersagliato di bombe il bunker della sirtica. Per ucciderlo.
Non è la prima volta. Fatta salva l’«inconsapevole» mina italiana che nell’esplodere tra i piedi del «bambino Muammar» nel deserto libico, lo ferì ad un braccio uccidendo due suoi cugini, a farlo fuori ci hanno provato tante volte, almeno due memorabili. Ed è storia cogente, anche del Belpaese, come testimonia l’abbattimento del Dc9 Itavia sui cieli di Ustica il 27 giugno del 1980. «C’era un progetto di abbattere Gheddafi, oppure il suo regime nel caso fosse andato bene il progetto di abbattimento dell’aereo del Colonnello: doveva insorgere, come sta accadendo adesso, la Cirenaica», ha rivelato in una recente intervista il giudice Rosario Priore che ha indagato sulla strage di Ustica. «Ma – aggiungeva il magistrato – non fu abbattuto Gheddafi ma il Dc9 Itavia». Quella rivolta, che aveva per epicentro la guarnigione militare di Tobruk, fallì e gli ufficiali ribelli furono fucilati. Il giudice ricorda, a proposito della strage di Ustica, che «quella notte viaggiava un aereo libico sul Tirreno con sigla 56, un codice che significa capo di stato a bordo, verso nord; ma arrivato all’altezza di Malta fa una virata verso est. E sui radar sulla rotta del Dc9 si vede l’avvicinamento di aerei con velocità militare, che non si fanno mai identificare ma viaggiano coperti da aerei civili più grandi. Gli unici Paesi ad avere portaerei nel Mediterraneo erano Usa e Francia; e poi Cossiga intervenne e disse che erano stati i francesi». Seguì il muro di gomma dell’omertà di stato e dei generali dell’aviazione per coprire quello che probabilmente è stato un altro tentativo di uccidereGheddafi.
Ma l’operazione più esplicita fu l’attacco aereo che l’aviazione statunitense condusse contro Tripoli, colpendo la caserma di Bab Al Azizia e il quartiere circostante, e e la città di Bengasi nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1986. L’attacco voluto dal presidente americano Ronald Reagan, sostenuto allora solo dal governo britannico della signora Thatcher, con l’opposizione dell’Italia a guida Craxi e della Francia di Mitterand, fu sanguinoso: le vittime furono più di cento.
Il bombardamento contro la Libia fu l’acme di quella che è stata definita la «sindrome Gheddafi» degli Usa che consideravano il leader libico il «terrorista numero uno», e che avrebbero continuato nell’obiettivo dichiarato di ucciderlo. Per questo la Casa bianca attivò a partire dall’agosto 1986, dopo l’adozione una «insolita e segreta campagna di falsificazione allo scopo di convincere Gheddafi che sarebbe stato di nuovo attaccato dai bombardieri americani e forse rovesciato da un colpo di stato». Il piano segreto, adottato dalla Casa bianca in un vertice guidato dal Consigliere di stato Poindexter prevedeva «la combinazione di fatti reali ed illusori, allo scopo di far credere a Gheddafi che in Libia c’era una forte opposizione contro di lui, che i suoi più fidati collaboratori lo tradivano e che gli Usa avrebbero colpito di nuovo…». E «l’Intelligence americana montò in settembre anche una serie di prove per le quali la Libia era in procinto di pianificare un notevole numero di attacchi terroristici.». Queste parole altro non sono che il testo della rivelazione del 3 ottobre 1986, uscita con una pagina sul Washington Post a firma Bob Woodward, lo stesso che con la storica inchiesta sull’affare del Watergate aveva smascherato le menzogne del presidente Richard Nixon, costringendolo alle dimissioni. Bob Woodward denunciò anche che la campagna di demonizzazione di Gheddafi orchestrata dalla Casa bianca prevedeva che grandi media, tra cui il Wall Street Journal, pubblicassero come «verità colata» le veline dell’Amministrazione Usa. Dunque, non esistono solo menzogne di guerra, ci sono anche le falsificazioni che la preparano.
L’articolo di Bob Woodward suscitò scalpore e svelò i piani militari Usa e la subalternità dei media. Divenendo, con i reportage dalla guerra del Vietnam, un cult delle scuole di giornalismo nel mondo.
Fonte: Il Manifesto
01 settembre 2011