L’Italia ci ha rifiutati, Dio no!
Corriere.it
I 630 migranti salvati dall’Aquarius arrivati a Valencia dopo nove giorni di viaggio nel Mediterraneo. Le testimonianze: «C’era gente che piangeva, vomitavamo tutti, anche i bambini piccoli, e qualcuno ha pure tentato di buttarsi in acqua»
Alle 8.30 del mattino le campane di Santa Maria del Mar suonano a festa. La navata della chiesa affacciata sulla avenida del Port è buia, illuminata solo da poche candele. Le luci verranno accese per la messa solenne della domenica. Accanto all’altare un gruppo di chierichetti avvolto dall’oscurità intona il canto del marinaio. Benedetto, o signore, per averli salvati dalle acque. Don Pedro Martìnez spiega che è una tradizione dei pescatori valenciani risalente al primo Ottocento. Quando alcuni di loro ritornavano da un viaggio pericoloso, gli altri andavano con le famiglie a pregare per grazia ricevuta. «Non si lascia indietro nessuno, mai, lo dice la legge di Dio e quella del mare». Poi il sacerdote scruta l’interlocutore dopo aver ascoltato il suo spagnolo incerto. «Lei è italiano, vero? Siete sempre stati un popolo di bravi cristiani, e spero che continuerete ad esserlo».
L’arrivo in porto
Il fragore dei rintocchi contrasta con il silenzio quasi religioso che dall’altra parte della strada accompagna l’arrivo dell’Aquarius e delle altre due navi nostrane che la accompagnano dopo essersi divisi i 629 migranti, ma alla conta ufficiale si scoprirà che in realtà erano 630. Come se dopo il rumore di fondo, tutto questo urlare e questo lacerarsi, fosse giunto il momento di lasciare spazio ai fatti, alla vita vera, che parlano da soli. La prima è la Dattilo, che entra dalla diga foranea compiendo una lunga manovra a semicerchio per affiancarsi al molo 2, dove nei giorni normali attraccano gli yacht di grande stazza. I migranti sono quasi tutti a prua, in 274 a bordo, il carico più grande. Cominciano ad applaudire, prima battendo piano le mani, poi sempre più forte, in crescendo, fino a concludere con un grido di esultanza. Non c’è comitato di accoglienza, solo una stretta di mano tra il comandante e l’addetto portuale che ha diretto la manovra da terra. Alla fine l’enfasi è stata chiusa nel cassetto delle intenzioni.
L’odissea di Aquarius
L’attesa è tutta per l’Aquarius e i suoi nove giorni di traversata. Per la nave di volontari alla quale è stato negato un porto italiano. Questa volta non si sentono applausi, ma solo un lungo canto, un coro stonato e festoso, che accompagna l’entrata in rada e la manovra di attracco ai piloni di acciaio. La nave di Sos Mediterranée e Médecins Sans Frontières è stata quasi svuotata. Porta solo 106 profughi, ma ormai rappresenta un simbolo. «L’Italia ci ha rifiutati, Dio no» raccontano abbia detto il primo migrante che ha toccato terra. Sembra uno slogan pronto all’uso, coniato per l’occasione.
I naufraghi
Nel giorno dei buoni, Alì Koyu e il suo amico Nasir non riescono a dimenticare i cattivi. Il primo scopre una spalla dalla maglietta, per far vedere una serie di bruciature da sigaretta. Nasir, che sembra molto più giovane dei 18 anni dichiarati, zoppica in modo vistoso. I volti dei due ragazzi appaiono in modo fugace all’ingresso dell’hangar che fu della barca da competizione Alinghi, dove i profughi che lo desiderano possono riposarsi prima di essere portati verso destinazioni a loro ancora ignote. Tempo massimo di permanenza previsto dal protocollo, un’ora. «Eravamo andati a Tripoli per trovare lavoro, ma laggiù noi nigeriani siamo odiati. Ci hanno chiuso in una stanza per cinque mesi, dopo averci rubato tutto. Fuggire, e cercare di venire in Europa, è stata l’unica soluzione possibile». I momenti peggiori del viaggio sull’Aquarius sono racchiusi in quei due giorni di sospensione, in 630 su una nave adibita al primo soccorso con una capienza massima di 520 persone, senza un porto dove riparare. «Faticavamo persino a muoverci. Per andare alla toilette bisognava scavalcare i corpi dei nostri compagni stesi a terra. C’era gente che piangeva, vomitavamo tutti, anche i bambini piccoli, e qualcuno ha pure tentato di buttarsi in acqua». I due ragazzi vengono subito presi in consegna dagli addetti alla sicurezza. I profughi vengono nascosti alla vista di tutti. Dicono che è questione di protocollo, anche se le stesse Ong avrebbero ogni interesse a rivelarne le facce e le voci, ma su questa scelta pesa anche l’incertezza del governo spagnolo sul loro status e sul loro destino.
Il ricordo a bordo
La rabbia rimane agli altri. A chi ha vissuto e condiviso con loro questi giorni. Nicola Stalla dice e non può dire, perché è consapevole di essere in mezzo a un gioco grande come il destino di migliaia di esseri umani. È un ex ufficiale della Marina mercantile, un quasi quarantenne di Alassio che dal 2016 dirige le operazioni di soccorso dell’Aquarius. «Quella domenica mattina — racconta — il ministero dell’Interno, tramite la Guardia costiera, ordinò di andare verso Nord. Messina o Trapani, ci dissero, vi facciamo sapere nel giro di quindici minuti. Tutto ha taciuto per due ore. “Siete in attesa, scusateci”. Evidentemente al Viminale qualcuno si è svegliato e ha detto no, compiendo un gesto grave e irresponsabile».
«Un’impresa difficile, in mezzo a tanta propaganda»
Anche Claudia Lodesani si muove su un sentiero stretto. La presidente italiana di Msf è una infettivologa che ha trascorso l’ultimo anno nel Sudan del Sud. Adesso è qui sul molo 2, a cercare uno spazio dove spiegare le proprie ragioni. «Un’impresa difficile, in mezzo a tanta propaganda. Abbiamo chiesto un incontro a Matteo Salvini. Vorremmo fargli capire che non siamo avventurieri. E abbiamo cominciato a lavorare in mare proprio perché non c’erano navi italiane a sufficienza per salvare tutti i migranti». Intanto è scesa la sera. L’ultima nave del convoglio, l’Orione della Marina militare italiana, passa quasi inosservata. La marina di Valencia si svuota. Dicono tutti che dopo l’Aquarius niente sarà come prima e ci saranno altre settimane come queste. Mentre andiamo via, incrociamo un pullman carico degli ultimi migranti appena sbarcati. Sono i minori non accompagnati, diretti ad Alicante. Hanno le facce incollate al finestrino, lo sguardo perso nel vuoto. Uno di loro accenna un sorriso, e saluta con la mano. Sarà anche un luogo comune. Ma basterebbe ricordarsi che le campane della chiesa di Santa Maria del Mar hanno suonato anche per noi.
di Marco Imarisio
18 giugno 2018
Corriere della Sera