L’Italia è un paese razzista?
Jean-Léonard Touadi
La società è davvero cambiata: l’Italia si trova in una fase acuta dell’immigrazione. Quali risposte dare, dunque? E a quale porta bussare, per trovare una soluzione al dilagare degli episodi di xenofobia?
C’è una domanda che campeggia su tutti i mezzi di informazione: “l’Italia è un paese razzista?”. La questione sembra sorgere spontanea di fronte ad una catena impressionante di episodi, quelli di cui siamo a conoscenza e quelli che invece passano sotto silenzio, in grado di scuotere l’opinione pubblica. Chiederci se siamo un Paese razzista si rivela, però, un esercizio retorico inutile.
Per tanto tempo, infatti, ci siamo cullati nell’idea che gli italiani fossero “brava gente”. Che il Belpaese non potesse essere un bel paese razzista, come se questa condizione dipendesse da un codice genetico collettivo -hai il gene del razzismo o non ce l’hai?- che non tiene conto di altri fattori. L’ascesa di sentimenti xenofobi o razzisti, invece, è frutto di processi sociali e di sviluppi politici contingenti che nel corso degli anni hanno portato il paese a reagire di fronte al diverso, allo xenos, trasformandolo in barbaros. Non si tratta dunque di una degenerazione spontanea, ma di una ‘fecondazione assistita’, nella quale forze politiche e culturali intervengono, spesso in modo davvero scientifico.
Nel manipolare la parola ‘razzismo’ bisogna prestare sempre molta attenzione. Essa rimanda infatti a fasi storiche che il nostro continente, l’Europa, ha attraversato nei decenni passati, a volte restandone segnata e sfigurata. Qual è il percorso che abbiamo seguito per arrivare al punto attuale, e in base a questo, quale lettura delle prospettive future ci è consentito di fare? Ripercorrendo a ritroso la nostra storia, ci accorgiamo che il clima che stiamo respirando è quello che ha posto lo straniero, il diverso, nella condizione di essere il bersaglio privilegiato di una rabbia che dovrebbe invece trovare altrove i suoi sfoghi, come le sue responsabilità.
Vediamo insieme il sentiero. All’inizio degli anni ’80, il nostro paese si scopre per la prima volta terra di immigrazione, dopo essere stato per molto tempo paese di emigranti. Il mutamento è di quelli rivoluzionari: abituati ad andare fuori dai propri confini, e anche a subire le forme di razzismo da parte degli ‘indigeni’ dei paesi che di accoglienza (non c’è pregiudizio né insulto che oggi rivolgiamo nei confronti degli immigrati che non ci sia stato rivolto a noi, come dimostra l’ottimo libro l’Orda, di Gian Antonio Stella), gli italiani hanno dovuto cambiare radicalmente il loro punto di osservazione. Ma non esistevano mezzi culturali né politici per leggere il fenomeno e dargli un senso, quindi la politica e la società hanno chiesto agli immigrati un po’ di pazienza per elaborare le risposte alla loro presenza.
Nei primi anni ’90, con gli sbarchi degli Albanesi in Puglia e le immagini ai tg dei barconi stracarichi di un’umanità esasperata e in cerca di fortuna, viene a svilupparsi nella coscienza dei cittadini –non casualmente- questa ‘sindrome da invasione’. L’Italia si sente circondata, invasa. Incomincia a coltivare reazioni di autodifesa. Questa emigrazione di massa dal piccolo Stato affacciato sull’Adriatico coincide con la discesa in campo di alcune forze politiche, come la Lega, che fanno della lotta allo straniero il loro cavallo di battaglia. La rottura delle barriere linguistiche e semantiche, l’esibizione di un armamentario simbolico apertamente xenofobo danno al processo politico e sociale un carattere di irreversibilità. E’interessante osservare come in Francia un movimento simile si manifesta con Le Pen, ma la società francese riesce a creare intorno a quest’uomo e alle sue proposte una sorta di ‘cordone democratico’. Da noi, invece, accade l’esatto contrario: il movimento acquista credito, e riesce ad arrivare ai vertici della rappresentanza politica, in Parlamento come al governo o in Europa, senza che gli sia chiesta una rinuncia alle armi ideologiche e simboliche con cui vincono le elezioni.
La seconda tappa di questa ondata di xenofobia va collocata dopo gli attacchi alle torri gemelle nel settembre 2001. E’ il periodo della stigmatizzazione degli immigrati, ma soprattutto di coloro che hanno origini e religione islamica. Si va amalgamando, in maniera, neanche tanto velata, il fenomeno dell’ immigrazione con il pericolo dell’integralismo. Musulmano uguale fondamentalista è il sillogismo più in voga. Da quel momento il Paese vive il passaggio dalla sindrome da invasione ad una sindrome ancor più pericolosa, che è quella della minaccia all’identità. Il riflesso identitario di chiusura autarchica trova il suo culmine con la teoria di una sorta di selettività etnica all’ingresso degli immigrati, volta a favorire i bianchi cristiani dell’europa orientale rispetto a questi ‘pericolosi’ nordafricani o mediorientali.
Siamo oggi alla terza fase, una fase di razzismo più acuto perchè non riesce a riconoscersi come tale. Esso continua nella tecnica dell’occultamento di sé stesso, di fronte ad un dilagare di episodi e di atteggiamenti che segnalano lo stato di un paese che sta coltivando e mettendo in pratica chiari atteggiamenti xenofobi. E sullo sfondo di crisi economica e sociale, condita da disordini sociali e paure metropolitane, il ruolo fondamentale l’ha giocato l’imprenditoria della paura, quel sistema di capitalizzazione del timore collettivo che della minaccia percepita dai cittadini per il proprio benessere e la propria identità ha fatto la propria fortuna politica. E ha costruito il razzismo 2.0.
La società è davvero cambiata: l’Italia non solo ha raggiunto le mete dei paesi europei, ovvero il 5 per cento di incidenza degli immigrati della popolazione locale (con punte del 10% a Roma e Milano), ma si trova in una fase acuta dell’immigrazione. L’alibi di pensare che il fenomeno sia nuovo non regge: molti immigrati si sono stabiliti, lavorano in questo paese, pagano le tasse, i loro figli cresceranno nel nostro paese. Quelle risposte lasciate in sospeso nella prima fase, e che sono arrivate in quantità infinitesimale e ad intermittenza in base alla contingenza del momento, ora vanno date, perché a chiederle sono le seconde generazioni.
Quali risposte dare, dunque? E a quale porta bussare, per trovare una soluzione al dilagare degli episodi di xenofobia? Di certo non a quella di una maggioranza che continua a mostrare i muscoli, dimostrando una totale incapacità intellettuale prima ancora che politica di reagire al fenomeno in termini di programmazione e di prospettiva. Alcune forze politiche ricordano gli apprendisti stregoni, principianti della magia che hanno invocato forze malefiche ed ora non sono più in grado di padroneggiarle.
Ciò che possiamo fare, in primis, è riconoscere l’esistenza del problema, ammettere che la società sta pericolosamente navigando sulla china del razzismo. Poi occorre prendere atto che l’immigrazione è un fatto reale, una presenza di cui la nostra economia, come quella globale, ha bisogno. Il terzo passo è poi quello di cambiare il proprio registro culturale e politico e avviare senza più ritardi delle politiche a livello locale, che non si esimano dal pagare il costo dell’integrazione, perché esso è un investimento culturale. Quarto punto, investire sulla scuola. Essa deve configurarsi come una palestra di convivenza dove i bambini, i rggazzi, possano imparare a creare la nuova cittadinanza. E’ un vero peccato che le recenti proposte di riforma sembrano marciare nella direzione ostinata e contraria. Dulcis in fundo: i diritti. Essi costituiscono lo zoccolo duro su cui costruire un futuro di convivenza. Con essi, si ha serenità sociale e sicurezza. Senza di essi, si entra in una spirale di deficit collettivo e contagioso: oggi sono gli immigrati e i nomadi, domani saranno i poveri e gli emarginati italiani. I diritti non possono essere negati in nome del passaporto e del colore della pelle, perchè questa negazione finisce per indebolire lo spazio della democrazia.
Fonte: Articolo21
05 ottobre 2008