Libia due anni dopo: fu rivolta coloniale?
Emma Mancini - nena-news.globalist.it
Celebrato l’anniversario di una “non rivoluzione” guidata da fuori e che ha cancellato il welfare libico. Oggi tribù e milizie armate preoccupano un governo ancora debole.
La Libia celebra il secondo anniversario dal cambio di regime. Il 17 febbraio 2011 metà del Paese si sollevò contro il colonnello Gheddafi, ritrovandosi in un batter d’occhio di fronte al sostegno incondizionato del mondo occidentale, desideroso di trarne profitto.
Da subito, i ribelli comparvero nelle tv di tutto il globo, brandendo armi di ultima generazione, jeep militari ed equipaggiamenti che lasciarono a bocca aperta chi immaginava una rivolta di popolo contro il dittatore. E di lì a poco, la NATO intervenne bombardando le roccaforti del regime di Gheddafi, aprendo la strada al crollo del rais, ucciso ad ottobre.
A due anni dallo scoppio di quella che andrebbe definita come una guerra civile, parzialmente telecomandata da fuori, si tirano le somme. Gli affari miliardari tra i governi occidentali e il nuovo regime libico mostrano la rivoluzione libica per quella che fu: una rivoluzione coloniale.
Ieri il popolo libico è sceso in piazza per celebrare la caduta del dittatore, in un Paese blindato e ancora lontano da una confortante stabilità interna. I confini sono stati chiusi giovedì, alcuni voli internazionali da e per Tripoli sono stati sospesi e checkpoint volanti sono apparsi per le strade di Bengasi e della capitale per timore di violenze. Timori fondati viste le proteste delle opposizioni (gruppi islamisti e organizzazioni della società civile) convinte che le riforme necessarie al Paese non siano state ancora archiviate dall’esecutivo guidato da Alì Zeidan.
Ma a preoccupare è soprattutto l’enorme quantità di armi ancora in circolazione in Libia: il Ministero degli Interni non pare in grado di neutralizzare le milizie armate che dettano legge a livello locale, soprattutto a Misurata, Homs e Bani Walid. A Sud, la Libia è ancora preda di scontri tribali e traffici illegali, a cui si aggiunge il rinnovato potere delle milizie islamiste, Al Qaeda in primis.
Se due anni fa l’ingresso di armi nel Paese favorì enormemente i ribelli e portò alla caduta del regime e alla morte del colonnello Gheddafi, ora quello stesso flusso è l’ostacolo alla stabilità e uno dei principali strumenti di mantenimento di un doppio livello di autorità: uno Stato dentro lo Stato, nel quale gruppi tribali e milizie armate mantengono il controllo di aree specifiche rifiutando di sottomettersi alla legge nazionale.
La Libia cammina sul filo, diretta verso il caos: se prima collante di un Paese profondamente diviso in etnie e tribù era il colonnello, oggi il nuovo governo non appare in grado di mettere insieme interessi settari che sono concreta minaccia alla transizione. E a breve, a sei mesi dalla formazione del nuovo governo, si torna alle urne per l’elezione dell’Assemblea Costituente.
Difficile parlare di rivoluzione riuscita. Sicuramente buoni risultati sono stati ottenuti dai governi europei, che speravano di buttarsi a capofitto nel grande business della ricostruzione – ancora troppo a rilento per la debolezza del neo-governo – ma che hanno comunque presto dimenticato il compagno d’affari Gheddafi e si stanno iniziando a spartirsi le risorse energetiche libiche (Italia in prima fila con 116mila barili al giorno estratti dall’ENI).
Prova ne è, ultima in ordine di tempo, l’imminente invio da parte del governo britannico di una fregata da guerra per aumentare il volume di vendita di armi e equipaggiamento militare da difesa, così da raggiungere i livelli commerciali di Francia e Italia (il governo di Roma ha da poco consegnato 20 veicoli blindati, mentre a gennaio Parigi ha venduto a Tripoli 50 imbarcazioni).
Si è così velocemente creato un sistema economico di libero mercato, fondato su privatizzazioni, deregolamentazione e crollo dei monopoli statali, ben lontano dall’economia semisocialista di gheddafiana memoria: la Libia ha perduto un sistema di welfare pervasivo che garantiva a tutta la popolazione minimi benefici e uno standard di vita dignitoso. Nessuna libertà di parola, né di espressione, completa inesistenza di partiti politici alternativi e sindacati, il tutto in cambio di un benessere generalizzato garantito dallo Stato. E oggi sostituito da un sistema di libero mercato a cui il popolo libico non pare essersi abituato.
La dittatura di Gheddafi, terribile nelle sue forme di violazione dei diritti civili e politici del popolo libico, non è però paragonabile a livello sociale ed economico a quelle dell’egiziano Mubarak o del tunisino Ben Alì: i popoli di Egitto e Tunisia sono scesi in piazza e hanno versato il proprio sangue contro le drammatiche condizioni di vita di gran parte della popolazione, strangolata da disoccupazione e prezzi alle stelle.
A Tripoli la situazione era ben diversa: il colonnello ha sempre utilizzato le straordinarie ricchezze petrolifere del Paese per mantenere ad un livello socio-economico più che dignitoso i sei milioni di abitanti della Libia. Il petrolio, forse la vera scintilla della “rivoluzione” libica.
Fonte: http://nena-news.globalist.it
18 febbraio 2013