Lettera dei preti di frontiera a papa Francesco
La redazione
“La memoria dolorosa rinnova l’impegno per il disarmo e per la pace”: questo il titolo della lettera che undici sacerdoti del Friuli Venezia Giulia hanno inviato a papa Francesco in vista della sua visita al Sacrario di Redipuglia.
Caro Francesco vescovo di Roma e papa,
Siamo un gruppo di amici preti delle Diocesi del Nord Est, coinvolti dalle periferie dell’umanità. Ogni anno a Natale scriviamo una lettera alle Comunità del nostro territorio; l’ultima, la 10a, è stata dedicata alla tua presenza nella Chiesa e nel Mondo.
Ci permettiamo ora di scrivere a te e di rendere pubblica questa nostra lettera, riguardo alla tua prossima visita del 13 settembre a Redipuglia, dove sarà fatta memoria dolorosa dei morti di tutte le guerre del passato e del presente.
Durante il ritorno dal recente viaggio in Corea, hai parlato con grande preoccupazione e dolore di un terzo conflitto mondiale in atto, con diversi focolai in tante parti del mondo e dovunque con crudeltà e torture sconcertanti; condividiamo e partecipiamo, chiedendoci ancora con Primo Levi: “Se questo è l’uomo…”.
Sappiamo che ciò non dipende in alcun modo da te, tuttavia ci dispiace che le Diocesi delle nostre regioni siano state coinvolte esclusivamente come distributrici di “biglietti”, per la partecipazione ufficiale di pochi alla celebrazione. Tutti attendevano con ansia e intenso desiderio una tua visita in occasione del Centenario dell’inizio della Prima Guerra Mondiale che ovunque, ma in particolare nelle nostre terre, ha seminato morte, distruzione e avvelenato quasi fino a oggi le relazioni tra i popoli e le nazioni che vivono in questo lembo d’Europa.
Ma l’organizzazione dell’Ordinariato Militare ha sostanzialmente reso impossibile non solo l’indispensabile preparazione, ma perfino la stessa presenza all’evento.
Del resto siamo certi che anche per te il passaggio a Redipuglia è percepito come l’occasione per innalzare un grido di pace attuale: sicuramente in quel giorno avresti preferito essere altrove, magari tra i cristiani dell’Iraq, alla testa di una comunità ecclesiale chiamata oggi a testimoniare eroicamente, con la nonviolenza e il rifiuto delle armi, quel “non opporsi al malvagio” e “porgi l’altra guancia” che ci è stato insegnato da Gesù di Nazareth.
Il Sacrario di Redipuglia
Ci permettiamo di proporre alcuni spunti di riflessione in sintonia con gli interventi dei Vescovi del Friuli Venezia Giulia, in particolare con la lettera pastorale ad hoc pubblicata recentemente dall’Arcivescovo di Gorizia mons. Redaelli.
Il sacrario militare di Redipuglia, insieme al vicino piccolo cimitero austro-ungarico, suscita anzitutto un pensiero di pietà per i centomila morti – la stragrande maggioranza dei quali senza neppure un nome – che vi giacciono sepolti: esalta infatti proprio quella retorica nazionalista e militarista che è stata una delle tante cause della “orrenda carneficina”. Confidiamo che tu, con la libertà che ti ha finora caratterizzato, sappia evidenziare un modo diverso e alternativo di “ricordare” un’intera generazione di giovani mandati al massacro nella guerra di trincea.
Il Sacrario di Redipuglia è stato voluto e inaugurato da Mussolini in persona, dopo una visita al cimitero prima collocato sulla collina di fronte, a suo dire triste e poco curato. La struttura architettonica è finalizzata all’esaltazione dell’eroismo in battaglia; le tombe del Duca d’Aosta e dei quattro generali sono collocate davanti ai centomila che da morti sembrano dire “PRESENTE”, come scritto sulla loro tomba; quindi pronti a combattere di nuovo per l’idolo fascista di una “patria” che non ha nulla a che fare con la “Patria” delle donne e degli uomini che s’impegnano per la giustizia, la libertà, la democrazia, i diritti umani uguali per tutti.
Un altro elemento è motivo di riflessione, perché inquietante. La concezione retorica dell’eroismo sul campo di battaglia ha portato all’esaltazione del “milite ignoto”. Tra l’altro il soldato senza nome che riposa nel Vittoriale di Roma è stato scelto da una povera madre, proprio nel cimitero di guerra collocato dietro l’abside della “nostra” Basilica di Aquileia. Proviamo pietà e dolore e, proprio per questo, secondo noi il “milite ignoto” è invece la condanna più decisa della guerra, perché cancella perfino il nome e il volto di un essere umano, non più riconoscibile perché sfigurato e distrutto.
Due tentazioni da evitare
La prima è la “riduzione” degli eventi a mera occasione di ricostruzione folkloristica di ciò che è accaduto cento anni fa. La stessa dizione vezzeggiativa di “Grande Guerra” sembra accentuare l’interesse sulla ricerca e ricostruzione di strategie belliche piuttosto che sulla realtà di una – come più volte aveva richiamato in quel periodo l’illuminato pontefice Benedetto XV – “orrenda carneficina”, “spaventoso conflitto”, “inutile strage”.
La seconda è l’accentuazione quasi esclusiva dei motivi di attrazione turistica, sottolineando con particolare enfasi il ruolo di persone e luoghi che ricordano gli eventi salienti di quel tempo. Per questo si attende con particolare sollecitudine la tua parola Francesco, per essere richiamati al fatto che la memoria non è soltanto legittimo onore ai caduti, ma anche accoglienza del loro monito.
Per rimanere soltanto nella valle dell’Isonzo (Soča) accanto ai grandi sacrari italiani di Redipuglia, Oslavia e Caporetto (Kobarid), sono innumerevoli i piccoli cimiteri austro-ungarici, dove sono sepolti soldati appartenenti alla maggior parte delle nazionalità europee. Che cosa suggeriscono le pietre tombali? Un’unica parola: “Pace!”.
Come evitare queste tentazioni?
Anzitutto, attraverso una documentazione storica accurata e rigorosa. Sono tanti gli studi che sono stati prodotti in questi anni, proposti da studiosi e autori che hanno consentito di comprendere meglio cosa è accaduto prima, durante e dopo la guerra: la ricerca delle cause, degli effetti e delle conseguenze a breve e lunga distanza. Un esercizio quanto mai indispensabile nel nostro territorio, dove la mancata piena chiarezza sullo svolgersi dei fatti nella prima metà del Novecento riesce ancora a suscitare motivi di disagio, di perplessità e perfino di pregiudiziali accuse reciproche.
L'insegnamento per l’oggi e il domani della storia
Soprattutto è importante interrogarsi sul presente, su ciò che la drammatica stagione di cento anni fa può insegnare oggi, a ciascuno di noi. E da questo punto di vista, ci permettiamo di indicare, tra i tanti possibili, tre suggerimenti.
Il primo riguarda l’amara constatazione secondo la quale, nonostante l’orrore che essa suscita, la guerra è ritenuta ancora uno strumento per risolvere i problemi degli Stati e le loro relazioni internazionali.
Dall’osservatorio del Friuli Venezia Giulia e del Veneto Orientale, si sono viste da molto vicino le guerre balcaniche degli anni '90 del Novecento, si sono sentiti alzare in volo dalla Base USAF di Aviano – dove ancora albergano numerose testate nucleari – i bombardieri destinati all’Iraq; ma anche in questi giorni, come non guardare con ansiosa preoccupazione all’evolversi della situazione tra Ucraina e Russia; alla sempre complessa situazione della Terra Santa con i massacri di Gaza, della Siria e in generale del Medio Oriente; all’Iraq, “pacificato” dagli interventi militari internazionali e ormai trascinato in una guerra civile dai contorni crudeli e incerti; ai conflitti africani, alcuni addirittura secolari, dove all’elemento degli interessi economici e del controllo delle risorse energetiche si aggiungono divisioni di ordine culturale e religioso.
E purtroppo questo genere di elenco è sempre troppo lungo e implica un forte esame di coscienza riguardante la politica internazionale, la cooperazione allo sviluppo dei popoli, la “gestione” dei fenomeni migratori… Che soluzione possibile?
L’insegnamento sociale della Chiesa, da Benedetto XV al tuo attuale sapiente magistero, è stato costante e univoco, invocando la realizzazione di un arbitrato internazionale in grado di affrontare i problemi non con la forza delle armi, ma dell’intelligenza e della diplomazia.
Certo, l’attuale impotenza dell’Organizzazione della Nazioni Unite dimostra la difficoltà nel trovare adeguate soluzioni, soprattutto relativamente alla cessione di potere da parte dei singoli Stati e dei criteri di rappresentanza in sede di voto. Tuttavia il riferimento al Vangelo di Gesù di Nazareth non può che impegnare tutte le Chiese nell’indicare la strada della nonviolenza e del ripudio della guerra come unica possibile, soprattutto nel contesto attuale, dove le armi di distruzione di massa minacciano la stessa sopravvivenza del genere umano.
Del resto, già Benedetto XV proponeva il disarmo generale e il mantenimento degli strumenti di morte “esclusivamente nei limiti richiesti dal mantenimento dell’ordine pubblico nei singoli Stati”. Sarebbe interessante che ogni paese, anche l’Italia – tuttora tra i primi dieci produttori mondiali di armi cosiddette “convenzionali” – si interroghi sulla formazione dei propria arsenali militari, alla luce di queste parole; lo stesso papa della Chiesa, alla fine del 1914, ammoniva: “Qual meraviglia se ben fornite come sono di quegli orribili mezzi che il progresso militare ha inventato, (i popoli) si azzuffano in gigantesche carneficine?”.
La fede, le chiese, le religioni, la pace
Il secondo elemento riguarda più specificamente coloro che si definiscono “cristiani”, ovvero discepoli del Signore Gesù, principe della pace. La prima guerra mondiale ha visto contrapporsi persone che professavano la stessa fede e la stessa confessione.
Preti cattolici benedivano le armi italiane invocando la protezione delle pallottole, affinché colpissero l’avversario; preti cattolici benedivano i cannoni austro-ungarici con le stesse parole, vescovi dell’una e dell’altra parte invitavano i fedeli a Te Deum di ringraziamento per le stragi perpetuate dai “propri” eserciti nei confronti degli “avversari”.
Un famoso Generale – al quale, nelle città e nei paesi d’Italia, sono dedicate tante strade, piazze e istituzioni – si dichiarava profondamente cattolico, cercava di andare a Messa ogni giorno e poi spediva al massacro il fior fiore della gioventù, ordinando la fucilazione senza pietà di chi si rifiutava di obbedire a ordini disumani.
Senza dimenticare ciò che è accaduto dopo, quando persone che frequentavano settimanalmente la Messa cattolica o il culto protestante sostenevano dittatori e ideologie che hanno generato le leggi razziali – proclamate anche in Italia da Mussolini a Trieste, proprio il 18 settembre 1938, lo stesso giorno dell’inaugurazione del sacrario di Redipuglia! – la seconda guerra mondiale e i campi di sterminio.
Sono situazioni del passato o anche oggi i “cristiani” non leggono sempre con gli occhi di Cristo e nella luce dello Spirito Santo gli avvenimenti attuali? Raramente si pensa e si prega per le persone coinvolte in tante guerre dimenticate, quasi sempre provocate dal dislivello tra il nostro tenore di vita e quello del Sud del mondo.
Milioni di persone emigrano dalla loro terra, fuggendo dalla fame, dalle persecuzioni e dalla guerra e spesso non soltanto non vengono considerate come sorelle e fratelli, membri della nostra famiglia umana, immagine e somiglianza di Dio, ma ci si allinea nelle ben poco cristiane distinzioni tra i “noi” che avrebbero il diritto di sentirsi a casa propria e i “loro” che vengono ad invadere.
Spesso sono proprio coloro che frequentano le chiese a sostenere la necessità di una linea di durezza e non accoglienza in nome di un presunto egoistico diritto alla sicurezza; spesso sono proprio loro a fomentare l’incomprensione tra le religioni, lasciandosi trascinare in pregiudizi dettati da indebite e ignoranti generalizzazioni. Come se vivere nell’occidente ricco sia frutto di una scelta o di un merito…
La contrarietà alle armi e alla guerra. L’educazione alla pace
Il terzo e ultimo elemento da richiamare è il fatto che la contrarietà alla guerra non si esprime soltanto con le parole, ma anche con scelte politiche e di vita personali conseguenti.
Ricordare il Centenario vuol dire allora per chi vive presso l’ex confine orientale d’Italia, ritrovare la gioia della comunione nella ricchezza della diversità delle culture e delle lingue. Ciò significa lasciare agli storici uno studio scientifico accurato sugli avvenimenti dall’inizo della prima guerra mondiale alla fine della seconda, individuando cause, percorsi e responsabilità.
E, pur rispettando il dolore soggettivo degli uni e degli altri, significa superare antichi rancori attraverso il desiderio di guardare avanti, per trasformare una terra dove troppo sangue fraterno è stato versato in un autentico laboratorio per la costruzione della giustizia e della pace in tutto il mondo.
Oltre a ciò, sarebbe importante che ciascuno, interpellato dalla constatazione di quanto male ha portato l’incapacità di comprendersi e cercare soluzioni diplomatiche ai conflitti, tenti di individuare le proprie situazioni – familiari, condominiali, lavorative – di conflitto. L’adoperarsi a costruire nuove relazioni fra le persone, improntate alla concordia e alla pace e avviate dal decisivo esercizio del perdono, è il vero modo per celebrare efficacemente i cento anni dall’inutile strage.
Certo, le notizie che provengono dagli attuali campi di battaglia sono sconcertanti, tanta è la violenza che si esprime e che si riversa attraverso i media nelle nostre case e nei nostri cuori. Si presenta ancora una volta la drammatica domanda sul “come” fermare gli aggressori, quando la crudeltà è così grande e le vittime appaiono inermi.
Così si esprimeva Dietrich Bonhoeffer, sapiente e pacifista pastore protestante, incarcerato per aver sostenuto le “ragioni” dell’attentato a Hitler:“L’uomo della coscienza si difende solitario dal superiore potere delle situazioni eccezionali davanti alle quali è richiesta la decisione.
Ma viene dilaniato dall’enormità dei conflitti nei quali è chiamato a scegliere, consigliato e guidato da nient’altro che dalla sua personale coscienza… La libertà ha il suo fondamento in Dio che esige che l’uomo assuma liberamente nella fede il rischio dell’azione responsabile e che promette perdono e consolazione a chi così facendo diventa peccatore”. Sono parole che richiamano da vicino la “novità” del tuo magistero, che impegna così fortemente l’intelligenza e la responsabilità di ogni persona.
L’individuazione delle diverse cause e delle chiare responsabilità lascia infatti sempre aperta la grande questione del perché l’essere umano sia così facilmente disponibile alla violenza, alla guerra, all’uso delle armi, perché accetti gli ordini assurdi e disumani e non esprima l’obiezione di coscienza agli ordini che provocano morti, feriti, distruzioni.
Migliaia e migliaia di soldati sono stati processati e uccisi, anche sul Carso, perché si sono rifiutati di obbedire a comandi contro l’umanità: sono stati a lungo bollati come vigliacchi e disertori, per noi sono profetici testimoni di umanità e di pace; meritano di essere esplicitamente ricordati nella celebrazione della memoria!
Francesco, ti aspettiamo per ascoltare la tua parola che – ne siamo certi – saprà superare le gabbie di diverso tipo che vorrebbero imprigionarla o comunque attenuarla.
Con profonda gratitudine per le parole e i segni con cui incoraggi il nostro camminare.
I PRETI FIRMATARI
Pierluigi Di Piazza, Franco Saccavini, Mario Vatta, Giacomo Tolot, Piergiorgio Rigolo, Andrea Bellavite, Luigi Fontanot, Alberto De Nadai, Renzo De Ros, Albino Bizzotto, Antonio Santini.