Legge sulla cooperazione: un DDL da migliorare


Lettera22


“Era ora. Bene. Ma va migliorato”, dice Nino Sergi di Intersos a proposito del Disegno di legge governativo sulla cooperazione allo sviluppo (Cdm del 24 gennaio 2014).


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senegalci

Lo schema del nuovo DDL è certamente innovativo e da apprezzare

Si tratta di un’innovazione, attesa da oltre quindici anni, che potrebbe ridare interesse e nuovo slancio alla cooperazione allo sviluppo.
La cooperazione allo sviluppo è vista come parte qualificante dell’azione di politica estera dell’Italia (art. 1), quindi come elemento prioritario e strategico dell’azione internazionale, basato sulla lotta alla povertà e sulla costruzione di partenariati e di rapporti rispettosi, alla pari, per un cammino di sviluppo e di pace con paesi considerati prioritari, a beneficio ed interesse reciproco.
E’ quindi anche un investimento per il futuro dell’Italia e il suo ruolo nella comunità internazionale. Nel DDL non si dovrebbe più parlare di APS, aiuto pubblico allo sviluppo (art.3), ma di CPS, cooperazione pubblica allo sviluppo, mettendo fine (salve le emergenze umanitarie) alla logica assistenziale che non può produrre risultati duraturi e non è gradita agli stessi paesi partner.

La centralità della persona umana nella sua dimensione personale e comunitaria, il partenariato nella sua configurazione statuale, territoriale e comunitaria, la piena appropriazione dei processi di sviluppo da parte dei paesi partner, l’efficacia come principio cardine, gli obiettivi di: – riduzione della povertà e delle disuguaglianze, – miglioramento delle condizioni di vita, – promozione di uno sviluppo sostenibile, – tutela e promozione dei diritti umani, della dignità della persona e della parità di genere, – affermazione dei principi di democrazia e dello stato di diritto, – prevenzione dei conflitti e sostegno ai processi di stabilizzazione e pacificazione, sono ormai il chiaro riferimento per tutti i soggetti, istituzionali e non, pubblici e privati, non profit e profit che vorranno partecipare all’attuazione della cooperazione allo sviluppo dell’Italia.
E’ ormai convinzione condivisa che dare ampio riconoscimento (art. 21), pur con i necessari severi criteri selettivi, ai vari soggetti della cooperazione allo sviluppo, pubblici e privati, comprese le imprese nella loro parte specifica, sia non solo corretto – perché questa è la realtà – ma anche il modo per suscitare il necessario interesse politico e quindi le conseguenti decisioni per rilanciare decisamente la cooperazione. Tale riconoscimento deve valere sia per gli attori pubblici e privati italiani che per quelli dei paesi partner.
I principali punti che rappresentano un salto di qualità nella governance complessiva della cooperazione pubblica allo sviluppo possono essere riassunti nelle definizioni:

a) di un Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, mantenendo il legame con la politica estera ma riconoscendo alla cooperazione una dignità particolare e politicamente prioritaria (art. 10),
b) della responsabilità politica, con il riferimento ad un Viceministro a cui sono delegate le competenze del Ministro in materia di cooperazione allo sviluppo,
c) del lavoro politico-diplomatico e non più gestionale del MAE e della sua DGCS, Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo (art. 19),
d) del luogo interministeriale dell’indirizzo politico, della programmazione con visione triennale, della coerenza delle politiche governative con le finalità della cooperazione allo sviluppo (art. 11 e 14),
e) dei poteri di indirizzo e controllo del Parlamento (art. 12),
f) degli stanziamenti annuali complessivi, accompagnati da una relazione allegata alla legge di stabilità, assicurando unitarietà e rilevanza politica e programmatica alla cooperazione allo sviluppo (art. 13),
g) dell’autonomia organizzativa, gestionale e di bilancio dell’Agenzia per assicurare unitarietà, efficienza gestionale, economicità, trasparenza, controllo e valutazione dell’efficacia dei risultati (art. 16),
h) della partecipazione dei soggetti pubblici e privati, non profit e profit, alla definizione delle strategie, le linee ii indirizzo, la programmazione, le forme di intervento, la valutazione dell’efficacia, attraverso pareri e approfondimenti (art. 15),
i) del riconoscimento particolare dato alle organizzazioni della società civile, pur normato e definito, con l’iscrizione da parte dell’Agenzia all’albo dei soggetti ritenuti ammissibili, per validità e capacità (art. 24).

Ma il Parlamento dovrà migliorarlo

In non pochi articoli, infatti, mancano quelle chiare previsioni e definizioni ritenute indispensabili per una buona e innovativa legge che, sui punti chiave, non lasci spazi di ambiguità. In particolare:

1.In generale, stona il preponderante ruolo del Ministero dell’economia e delle finanze, che nella legge appare come una piovra con i suoi tentacoli in tutti i passaggi decisionali, rendendo pesantemente burocratica quell’azione di cooperazione internazionale e di rapporti di partenariato che deve rispondere a ben altri criteri, pur nel severo controllo della gestione e della spesa. Definiti i necessari momenti di controllo del MEF, ogni altra sua presenza nei passaggi decisionali toglierebbe inoltre peso alla chiara definizione della responsabilità politica del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale e del Viceministro delegato alla cooperazione allo sviluppo, come anche dell’autonomia organizzativa, gestionale e di bilancio dell’Agenzia.

2.Ancora troppo indefinita rimane la figura – centrale e irrinunciabile – del Viceministro per la cooperazione allo sviluppo. “Il Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale”, infatti, “può conferire la delega in materia di cooperazione…” (articolo 10). In questo modo nulla cambia rispetto all’ordinamento precedente. La novità del Viceministro delegato alla cooperazione allo sviluppo deve essere formalizzata nella legge, con una chiara previsione e definizione, anche superando l’articolo 10, comma 3, della legge 400/1988 e successive modifiche. Senza una simile e definitiva scelta, la legge perde la sua validità.

3.L’autonomia organizzativa, gestionale e di bilancio dell’Agenzia (art.16), pur essendo riconosciuta, viene ancora limitata da alcune sovrapposizioni della DGCS, che fornisce per es. “indicazioni” per lo svolgimento delle “attività a carattere tecnico-operativo” o a cui rimane attribuita “la definizione … delle modalità di attuazione degli interventi”. Una più chiara distinzione dei ruoli e delle responsabilità, garantendo assoluta autonomia gestionale all’Agenzia, servirebbe anche ad evitare conflitti istituzionali.

4.L’autonomia di spesa del direttore dell’Agenzia è limitata alle iniziative fino a 3 milioni di euro, mentre le decisioni superiori a tale cifra sono affidate al Comitato congiunto (art. 20), presieduto dal Ministro/Viceministro e composto dal direttore generale della DGCS e dal direttore dell’Agenzia. Il DDL prevede altre partecipazioni: sarebbe meglio che queste, quando la specificità della materia lo richieda, partecipino solo a titolo consultivo, rimanendo quindi le responsabilità sempre chiaramente definite.

5.Alla Conferenza nazionale (art. 15) dei soggetti pubblici e privati impegnati nella cooperazione allo sviluppo il DDL non riconosce quell’autorevolezza e capacità propositiva e concertativa, in un dialogo inclusivo e articolato, la cui indispensabilità è stata dimostrata dai limiti dell’esperienza del Tavolo inter-istituzionale introdotto alcuni anni fa. La concertazione inter-istituzionale, regolare, strutturata e sistemica è indispensabile per valorizzare e rendere efficace il rapporto pubblico-privato, la mobilitazione di competenze e di risorse e le capacità propulsive e propositive dei vari soggetti coinvolti. Sarebbe più appropriato il termine Consiglio nazionale, distinguendolo così dalla conferenza nazionale pubblica che il DDL non prevede, ma che dovrebbe essere fissata, con cadenza almeno biennale.

6.Il riconoscimento dei soggetti aventi finalità di lucro (art. 26), se da un lato corrisponde alla necessità della dimensione imprenditoriale (media e piccola, in particolare) nei processi di sviluppo, dall’altro pone alcuni problemi a cui il dibattito parlamentare dovrà ovviare. Cooperare per lo sviluppo implica, anche per le imprese profit, alcune condizioni che il DDL ignora, diversamente dai soggetti non profit che sono invece ben definiti e normati. Per le imprese profit dovranno essere stabiliti criteri di valutazione quali per esempio l’adesione agli standard di responsabilità sociale fissati dalle linee guida dell’OCSE e dalla risoluzione del Parlamento europeo in materia di investimenti internazionali, il rispetto delle clausole sociali e ambientali e delle norme internazionali sui diritti umani, la verifica dell’osservanza di tali standard e clausole nelle precedenti attività dell’impresa e, solo dopo tale verifica, la conseguente iscrizione all’albo presso l’Agenzia.
Per quanto riguarda i crediti agevolati alle imprese per il finanziamento della quota di capitale di rischio o per il finanziamento di imprese miste, occorre invece chiedersi se abbia ancora senso oggi mantenere all’interno della cooperazione allo sviluppo quanto stabilito, in modo equivoco, nella vigente legge 49 del 1987, data la successiva istituzione della SIMEST, nel 1990, che svolge queste stesse funzioni nella chiara prospettiva di favorire gli investimenti italiani in tutti i paesi extra UE, compresi quelli prioritari per la cooperazione allo sviluppo.
Difficile rimane, infine, considerare gli istituti bancari come possibili soggetti di cooperazione allo sviluppo, data anche l’incapacità dimostrata di sostenere lo sviluppo delle imprese e delle famiglie italiane in difficoltà. Solo gli istituti bancari che hanno erogato credito in maniera consistente per sostenere l’economia locale, le piccole e medie imprese e le famiglie, perseguendo un modello mutualistico, potranno infatti essere capaci di realizzare le finalità della cooperazione allo sviluppo. In ogni caso non dovrà mai più ripetersi (e occorre riconoscere e apprezzare che nelle organizzazioni di impresa è maturata da tempo una nuova mentalità, attenzione e sensibilità) quanto vissuto in particolare negli anni ’80, quando l’unico scopo della quasi generalità delle imprese coinvolte nei programmi di cooperazione allo sviluppo è sembrato essere “l’affare” senza curarsi dei risultati, della sostenibilità e delle possibili conseguenze per i paesi partner, annullando, in questo modo, anche ogni possibilità di partenariato duraturo a livello imprenditoriale.

7.Per le ONG e altre organizzazioni della società civile (art. 24) occorrerà trovare il modo per mantenere alcuni spazi di intervento svincolati dalle priorità geografiche stabilite, laddove esse hanno stabilito partenariati solidi, hanno favorito occasioni di dialogo e processi di pacificazione, sono riconosciute e rispettate, anche come qualificata presenza italiana. Occorre che questo capitale di relazioni internazionali di cooperazione sia salvaguardato, riconoscendo alle ONG e altre organizzazioni una forte capacità propositiva, da valutare con attenzione certo, ma da non escludere solo perché non rientra nelle priorità. Quella delle ONG, in particolare, si è dimostrata una delle migliori e più costruttive forme di collaborazione tra pubblico e privato. Anche negli lunghi anni di crisi della cooperazione pubblica, grazie a questa saldatura la presenza italiana è stata sempre assicurata e spesso con interventi di alta qualità.

8.Anche per questo, dovranno essere rimosse, con gli interventi normativi necessari, le barriere fiscali, normative e burocratiche che ostacolano l’impegno della società civile nella realizzazione dei programmi di cooperazione internazionale allo sviluppo. Ad esempio, innalzando il tetto delle donazioni deducibili come avviene nei paesi più avanzati, eliminando i massimali del 5×1000, garantendone la rapida erogazione, dando certezze sui fondi per la “lotta alla fame nel mondo” dell’8×1000, ormai usati per altri fini.

9.Più in generale, la legge dovrà prevedere meccanismi di valutazione e riconoscimento della professionalità, qualità ed efficienza dei vari soggetti nelle attività di cooperazione allo sviluppo. Non basta cioè che gli statuti prevedano (art. 24) tale finalità, ma occorrerà che siano valutate le reali capacità e possibilità di realizzare attività di cooperazione con quel doveroso grado di qualità che possa in qualche modo garantire l’efficacia dei risultati.

10.E’ infine importante che il Parlamento fissi nel DDL che gli stanziamenti stabiliti per il triennio successivo non possano subire riduzioni e che le risorse finanziarie non impegnate nell’esercizio siano riportate per intero all’esercizio successivo. Si tratta di misure indispensabili per poter garantire l’assunzione di impegni internazionali certi e credibili a livello bilaterale e multilaterale.


Fonte: www.lettera22.it
4 febbraio 2014

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