Lega Araba: “Scambio territori Israele-Palestina”
Emma Mancini - nena-news.globalist.it
Il ministro israeliano Livni vola a Washington per discutere con Kerry dell’Arab Peace Initiative. Ma Ramallah rigetta l’idea: lo Stato di Palestina entro i confini del 1967.
A pochi giorni dalla visita del segretario di Stato americano, John Kerry, i vertici israeliani tornano a parlare di negoziato. A modo loro. Il premier Netanyahu è stato chiaro e ha gettato indirettamente le basi e le precondizioni per una possibile ripresa del dialogo: “Le radici del conflitto con i palestinesi – ha detto il primo ministro mercoledì – non sono legate a questioni territoriali, ma al rifiuto da parte palestinese di riconoscere Israele come Stato ebraico”.
Una visione originale: che l’occupazione dei Territori Palestinesi, l’espansione delle colonie e le politiche di confisca delle terre non siano questioni territoriali è un’affermazione poco difendibile. In ogni caso, la pressione di Kerry su Tel Aviv ha iniziato a sortire degli effetti: mentre Netanyahu pensa già ad un eventuale referendum sul piano di pace, il ministro della Giustizia e capo negoziatore israeliano, Tzipi Livni vola a Washington per incontrare il segretario di Stato e discutere della Arab Peace Initiative, vecchia proposta americana per la regione. Riconoscimento di Israele in Medio Oriente – ovvero la normalizzazione dei rapporti diplomatici con Tel Aviv da parte di 22 Paesi arabi – in cambio della fine dell’occupazione dei Territori Palestinesi.
Questa settimana Kerry ha discusso con diversi leader arabi con l’obiettivo di ridare nuovo vigore al vecchio piano di pace americano risalente al 2002. L’Arab Peace Initiative prevede che i Paesi arabi della regione garantiscano la pace a Israele in cambio del ritiro israeliano dai Territori occupati nel 1967. Con un’aggiunta dell’ultima ora: la Lega Araba, in un incontro tenutosi lunedì a Washington, ha proposto lo scambio di territori, ovvero la ridefinizione dei confini negli anni modificati duramente dalla nascita e l’espansione di colonie israeliane in Cisgiordania.
Dopo l’incontro con la Livni, Kerry potrebbe tornare presto in Medio Oriente per discutere dell’eventuale risultato del dialogo con il presidente palestinese Mahmoud Abbas. Resta da vedere quanto l’idea di uno scambio di territori nella prospettiva di una soluzione a due Stati sia considerata positivamente dalla controparte palestinese. Ieri uno dei leader del Comitato Centrale di Fatah, Muhammad Ishtayya, è stato chiaro, l’idea non piace: “Noi vogliamo uno Stato di Palestina entro i confini del 1967 con Gerusalemme Est come capitale. All’Onu 138 Paesi hanno votato a favore di questo. Israele tenta di annettere così i blocchi di colonie e far passare tale annessione come una proposta araba. Per noi questo è inaccettabile perché riteniamo tutte le attività coloniali illegali, il vero ostacolo alla pace”.
Sul piatto restano le questioni centrali del conflitto: lo status di Gerusalemme, la liberazione dei prigionieri politici e, soprattutto, il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi all’estero, diritto garantito dalla risoluzione 194 del 1948 delle Nazioni Unite. Un tema che Israele non intende toccare e che Ramallah spesso dimentica di menzionare.
Netanyahu, dal canto suo, è stato chiaro: qualsiasi piano di pace o accordo sia firmato con i palestinesi, spetterà al popolo israeliano dare il via libera attraverso un referendum (che alla Livni non va giù: “Siamo stati eletti, spetta a noi decidere”, ha detto ieri il ministro della Giustizia).
“Se raggiungeremo un accordo con i palestinesi, lo sottoporrò a referendum”, ha proclamato ieri il premier durante un incontro con il ministro degli Esteri svedese. I negoziati, come la comunità internazionale è ormai abituata a definire un processo di pace tra due parti che non godono affatto dello stesso potere negoziale, sono fermi ormai da quattro anni. L’Autorità Palestinese lo ha ripetuto stesso: non ci sarà mai dialogo se prima Israele non congela l’espansione coloniale. Da parte sua Israele sa bene che ogni metro quadrato in più che saprà conquistare, sarà un punto in più a proprio favore al tavolo dei negoziati. Facts on the ground, fatti sul terreno, li chiamano. Uno dei principali ostacoli alla pace.
Fonte: Nena News
3 maggio 2013