L’economia uccide più delle bombe! La crisi vista dalla Perugia-Assisi, 14 anni fa
Flavio Lotti e Mario Pianta
A 50 anni dalla prima marcia Perugia-Assisi e a 14 anni dalla marcia “per un’economia di giustizia”, i pacifisti saranno di nuovo in cammino il 25 settembre 2011. Nel mezzo della crisi europea. E’ l’occasione per rileggere l’appello di 14 anni fa, le cose non fatte allora, e urgentissime adesso.
“L’economia mondiale sta diventando sempre più ingiusta e insostenibile: uccide più delle bombe”. “Quest’ingiustizia affonda le radici in un neoliberismo che non sa rispondere ai veri bisogni delle persone” e cresce in un’economia che privilegia “le rendite finanziarie e i guadagni speculativi anziché la produzione, la crescita quantitativa anziché la qualità, lo sfruttamento della natura e dell’ambiente anziché la loro protezione”. Dopo la crisi finanziaria di questi mesi non è difficile essere d’accordo con questa critica. Ma queste parole erano scritte 14 anni fa nell’appello della Marcia Perugia-Assisi “Per un’economia di giustizia” del 12 ottobre 1997. La Tavola della Pace, nata in quell’occasione, portò centomila persone a chiedere – con indubbia capacità di anticipazione – un’economia meno ingiusta.
La pace si costruisce con la giustizia, e l’ingiustizia dell’economia che si globalizza è la fonte principale dei conflitti, “uccide più delle bombe”. La soluzione è in un ordine internazionale che faccia a meno delle armi – era ancora aperta l’occasione del disarmo alla fine della guerra fredda – e che riduca sottosviluppo e disuguaglianze. Per farlo, il potere dei mercati, della finanza e delle grandi imprese multinazionali deve cedere il passo agli strumenti della politica e ai diritti delle persone. Questo il filo del discorso di allora.
L’analisi era precisa: le disuguaglianze aumentano ovunque, i problemi di sopravvivenza della parte più povera dell’umanità sono irrisolti, il sottosviluppo genera disastri ambientali, lotta per le risorse, conflitti senza fine. L’ingiustizia viene dal neoliberismo e da una logica di profitto che impedisce il benessere di tutti; il mercato calpesta le persone e i benefici di tutto questo vanno ad “alcuni paesi più forti e alcune élite economiche e sociali, aumentando la marginalizzazione di milioni di persone”.
Qualcosa è cambiato da allora, non molto nella sostanza. Allora non si immaginava che l’Italia sarebbe stata messa fuori così presto dal gruppo dei paesi forti, che da allora a oggi il Prodotto interno lordo (Pil) italiano in termini reali non sarebbe praticamente aumentato. Cina, India, altri paesi asiatici, alcuni paesi dell’America latina hanno avuto un rapido sviluppo, i redditi medi sono aumentati, ma così pure le disuguaglianze – enormi – interne a quei paesi. L’ingiustizia non è diminuita.
L’insostenibilità del modello neoliberista ha portato al grande crollo del 2008 e alla recessione attuale, ma il potere politico ed economico resta aggrappato all’intoccabilità della finanza e al mito dell’efficienza dei mercati. Così l’insostenibilità si aggrava.
E’ cambiato – denunciato solo dai pacifisti – il ricorso alla forza militare, tornato all’ordine del giorno. Dalla guerra nei Balcani del 1999 ai bombardamenti in Libia di oggi – passando per le guerre del Golfo e in Afghanistan – l’occidente e il nostro paese si sono rimessi a fare la guerra per imporre un ordine neocoloniale, occasionalmente travestito con la tutela dei diritti umani. Le vittime – e le conseguenze – si moltiplicano.
Che cosa si chiedeva, 14 anni fa, ai potenti dell’economia? Partire dalle persone, battersi contro povertà e disuguaglianze, dare lavoro a tutti e dare dignità al lavoro, mettere cooperazione, democrazia e sostenibilità dentro l’economia. Mentre la globalizzazione neoliberista costruiva i suoi pilastri – il “consenso di Washington” e l’Organizzazione mondiale per il commercio (Omc) – i pacifisti chiedevano ai governi un’autorità politica sovranazionale che bilanciasse il potere dell’economia globale e la perdita di sovranità degli stati. La scommessa era di democratizzare e riformare il sistema delle Nazioni Unite, dare spazio all’agenda illuminata delle grandi conferenze Onu degli anni ’90 – sull’ambiente, le donne, lo sviluppo sociale, il razzismo, etc. – e alle convenzioni sul lavoro dell’Organizzazione internazionale del lavoro dell’Onu – creando una possibile difesa contro una globalizzazione pagata dai lavoratori.
Quest’offensiva “cosmopolitica” ha avuto pochi risultati, l’Onu si è ripiegata su se stessa, soprattutto negli anni bui delle presidenze Bush, le conferenze Onu a dieci anni di distanza hanno tutte registrato un arretramento degli obiettivi di cambiamento. Ma anche la globalizzazione è finita, prima ancora della crisi del 2008; la “spinta propulsiva” del libero commercio e dell’Omc si è esaurita, si è affermata una dinamica regionale – in Asia e America latina, come in Europa – che diversifica le traiettorie di sviluppo.
Agli organismi sovranazionali – Fondo monetario e Banca mondiale – si chiedeva di cambiare politica e “la cancellazione del debito estero dei paesi impoveriti, che ha raggiunto la cifra record di circa 2000 miliardi di dollari”. Ora il debito del terzo mondo non è più cosi pesante, e l’Italia da sola supera quella cifra, con un debito che in dollari vale 2700 miliardi. Perfino l’Fmi ha moderato la sua ortodossia liberista; in compenso, la sua vittima più recente è diventata la Grecia.
Alle politiche dei governi si chiedeva “di redistribuire le ricchezze, di offrire nuova occupazione anche riducendo gli orari di lavoro”, di tutelare i diritti dei lavoratori, di dare spazio alle donne e all’economia solidale. Su questo fronte – tutte responsabilità rimaste alla politica nazionale – nulla è stato fatto, continuiamo ad arretrare rispetto a 14 anni fa, le richieste di oggi sono le stesse. Il sistema politico degli stati sembra più immobile di quello mondiale.
Per i pacifisti, poi, c’era la “responsabilità di agire”. Non solo marce e proteste. Si è lavorato a costruire reti transnazionali di società civile capaci di proporre alternative, che avessero ascolto nelle istituzioni globali. Per questo 14 anni fa a Perugia si tenne – prima della marcia – la prima Assemblea dell’Onu dei popoli con un centinaio di rappresentanti di movimenti, associazioni, comunità locali di altrettanti paesi diversi. E due anni dopo, nel 1999, la successiva Assemblea dell’Onu dei popoli si intitolava “Un altro mondo è possibile”: tre mesi dopo ci fu la rivolta di Seattle contro l’Omc e un anno e mezzo dopo il primo Forum sociale mondiale di Porto Alegre scelse lo stesso titolo. Incontri di massa di questo tipo tra i movimenti di tutto il mondo sono diventati appuntamenti regolari, e la società civile – con le sue reti, campagne, eventi – è diventata un soggetto visibile e influente sulla scena globale.
Agire ha voluto dire fare dell’economia di giustizia un tema condiviso da centinaia di associazioni ed enti locali, capace di mettere in moto migliaia e migliaia di persone, aprendo la via alle proteste di massa degli anni successivi contro la globalizzazione liberista, fino al G8 di Genova del 2001.
Agire ha voluto dire incalzare la politica ad affrontare le ingiustizie, proporre alternative. Nel 2005 all’Assemblea dell’Onu dei Popoli ci fu un confronto con Romano Prodi, candidato del centro-sinistra alle elezioni (vittoriose) dell’anno successivo. Fece qualche apertura sul ritiro italiano dalla guerra in Iraq – poi realizzato dal governo – ma difese la globalizzazione come forza positiva e l’integrazione europea guidata da mercati e moneta. I risultati di quelle politiche – il crollo del 2008, la crisi dell’euro, disuguaglianze record – sono ora sotto gli occhi di tutti. Chissà se il centro-sinistra saprà imparare dagli errori commessi? Sarebbe interessante un nuovo confronto, a Perugia quest’anno.
Oggi come 14 anni fa i nodi irrisolti restano il potere dei mercati, della finanza e delle imprese, e l’assenza di una politica capace di affrontare le ingiustizie, nazionali e globali. Qui si misura il fallimento di un’Europa che ha costruito la sua integrazione sul liberismo e la finanza, e ora si trova sotto l’attacco della speculazione, divisa e indebolita.
Troppe cose non sono state fatte allora. L’agenda per cambiare non è cambiata. Per limitare il potere della finanza si chiedeva già allora la Tobin Tax sugli scambi di valute. Impensabile e irrealizzabile, ci rispondevano. Ora la fattibilità della tassa sulle transazioni finanziarie è sostenuta da Fondo monetario e Unione europea (Merkel compresa), ma manca ancora la volontà politica di introdurla.
Più aiuti allo sviluppo si chiedevano allora; i governi dei paesi ricchi si sono reimpegnati all’Onu nel 2000 a destinare lo 0,7% del loro Pil agli aiuti allo sviluppo, ma hanno subito mancato le promesse; con la crisi attuale gli aiuti sono i primi tagli effettuati.
Più occupazione e diritti per tutti i lavoratori, si chiedeva. Ora l’Unione europea ha 23 milioni di disoccupati – un problema non diverso da allora – e in più 15 milioni con lavori temporanei, a tempo pieno o parziale: una precarizzazione generale che 14 anni fa non avremmo sospettato.
Le cose non fatte allora sono diventate urgentissime adesso, con l’ingiustizia che si è fatta strada nel nostro paese, i problemi aggravati dalla crisi, la politica sempre più screditata. Le alternative ci sono, oggi come allora. Le forze del cambiamento anche, unite da un filo che attraversa le mobilitazioni di decenni. Pacifisti e movimenti saranno ancora sulla strada da Perugia ad Assisi, l’appuntamento è per la mattina presto, domenica 25 settembre 2011.
Di Flavio Lotti e Mario Pianta,
anche su Il Manifesto, 18 settembre 2011
L’appello
“Noi Popoli delle Nazioni Unite per un’Economia di Giustizia”
Presentiamo qui l’appello che convocava la Marcia per la pace Perugia-Assisi del 12 ottobre 1997
L’economia mondiale sta diventando sempre più ingiusta e insostenibile: uccide più delle bombe, semina guerre e tensioni, alimenta la povertà, la disoccupazione e l’esclusione sociale. L’abisso che separa una minoranza ricca e la maggioranza impoverita dell’umanità sta diventando sempre più profondo.
Noi popoli delle Nazioni Unite, preoccupati per la colpevole indifferenza che continua a circondare questa realtà e per l’assenza di adeguate politiche nazionali e internazionali capaci di affrontare le radici di tanta sofferenza e miseria, abbiamo deciso di dare vita, il 12 ottobre 1997, alla marcia Perugia-Assisi “per un’Economia di Giustizia”.
* Negli ultimi cinquant’anni il mondo ha conosciuto uno sviluppo senza precedenti. La ricchezza pro capite è triplicata. Dovremmo, dunque, stare tutti meglio. E invece… Ogni 3 secondi muore un bambino che non abbiamo saputo proteggere. Le disuguaglianze aumentano. In 102 paesi oggi si vive peggio di 15 anni fa. Nello stesso arco di tempo, il numero dei più ricchi è raddoppiato ma quello dei più poveri è triplicato. Oltre il 60% della popolazione mondiale è costretta a sopravvivere con 2 dollari o meno al giorno. Tre quarti della produzione mondiale sono concentrati nei paesi industrializzati, e appena un quarto nei cosidetti “paesi in via di sviluppo”, dove vive l’80% della popolazione del pianeta. Anche all’interno dei paesi più avanzati aumentano le diseguaglianze tra ricchi e poveri.
* L’ingiustizia economica provoca la maggior parte dei conflitti del nostro tempo alimentando instabilità e insicurezza in tutto il mondo. L’impossibilità per molti Stati di svilupparsi economicamente sta moltiplicando le tensioni e le fratture sociali, i danni ambientali, le carestie e la diffusione delle malattie, la crescita della criminalità organizzata, i conflitti per il controllo di risorse vitali come la terra, l’acqua o l’energia, le guerre civili ed etniche, le distruzioni e i profughi.
* Quest’ingiustizia affonda le radici in un neoliberismo che non sa rispondere ai veri bisogni delle persone e non rispetta i diritti umani. Essa cresce in un’economia organizzata per il profitto di pochi anziché per il benessere di tutti, che mette il mercato al di sopra delle persone e che privilegia: la competizione selvaggia anziché la cooperazione; i profitti resi possibili dalle disparità anzichè la riduzione di esse; le rendite finanziarie e i guadagni speculativi anziché la produzione; la crescita quantitativa dell’economia anzichè la qualità e la distribuzione dei beni e dei servizi; lo sfruttamento della natura e dell’ambiente anziché la loro protezione.
* Tutti i popoli dovrebbero beneficiare della crescente interdipendenza e dei progressi realizzati in campo scientifico e tecnologico. E invece… priva di ogni regolazione democratica, la globalizzazione dei mercati e dell’economia, con la forte crescita degli scambi commerciali internazionali e degli investimenti esteri delle imprese multinazionali, sta favorendo solo alcuni paesi più forti e alcune élite economiche e sociali, aumentando la marginalizzazione di milioni di persone e dei paesi più poveri del mondo.
* L’economia mondiale che sta emergendo è fondata su una “ideologia del mercato e della competizione senza regole” che rischia di travolgere tutto e tutti, in una spirale verso il basso che riduce i salari e la protezione sociale, viola molti diritti umani, crea nuove povertà, provoca l’aumento della disoccupazione, distrugge le risorse e l’ambiente naturale, alimenta la diffusione dell’economia “sporca” e accentua la crisi della democrazia politica.
Di fronte a questa grave realtà è urgente cambiare strada. Occorre innanzitutto:
1. mettere le persone al centro. L’ordine delle priorità va rovesciato. Non sono le persone che devono adattarsi al dominio del mercato, ma è l’economia che deve contribuire a soddisfare i bisogni delle persone. La crescita economica non può essere il fine ma solo un mezzo. Il fine è lo sviluppo umano, in un’economia rispettosa di tutte le diversità sociali, le culture e le identità, come affermato dalla Dichiarazione dell’Onu sul Diritto allo Sviluppo del 1986. Per questo la promozione della crescita economica deve essere riconciliata con l’impegno politico per il pieno impiego, la lotta alla povertà e all’esclusione sociale, la promozione di pari opportunità per tutti e in particolare per le donne, la salvaguardia dell’ambiente e delle risorse naturali. E’ paradossale che i processi di integrazione economica siano realizzati aprendo le frontiere alla finanza, agli investimenti, alle merci e non alle persone. Mettere le persone al centro vuol dire anche resistere alla “economicizzazione del mondo”, alla diffusione dell’ideologia del mercato in tutte le aree della nostra vita.
2. battersi contro la povertà e le disuguaglianze sociali mediante l’adozione di coerenti politiche e patti locali, nazionali e sovranazionali che coinvolgano anche gli enti locali, le forze sociali e quelle economiche. Siamo la prima generazione che ha i mezzi e le capacità per eliminare la povertà, con tutte le sue conseguenze e i suoi costi umani e sociali. Ciononostante 1 miliardo e 300 milioni di persone sono ai margini di tutto. Molte sono donne, anziani, bambini e bambine. Ogni minuto 47 persone nel mondo diventano povere: circa 70.000 al giorno. Che ne facciamo di loro? Il diritto allo sviluppo è un diritto universale e inalienabile di tutti gli esseri umani o solo di alcuni? La povertà non è solo moralmente ripugnante, ma anche economicamente distruttiva e politicamente pericolosa. Per questo la sua eliminazione deve diventare un obiettivo prioritario sia a livello nazionale che internazionale. Un passo decisivo in questa direzione deve essere la cancellazione del debito estero dei paesi impoveriti, che ha raggiunto la cifra record di circa 2000 miliardi di dollari, e la revisione del sistema di concessione dei crediti che genera processi insostenibili di indebitamento.
3. creare nuova occupazione e ridare piena dignità al lavoro e ai lavoratori di tutto il mondo. 35 milioni di disoccupati nei paesi industrializzati, di cui oltre 20 milioni in Europa. Più di 700 milioni di persone che, pur lavorando, non sono in grado di dare a se stessi e alla propria famiglia una vita dignitosa. Sono questi i numeri di quella che è la più grave crisi sociale del nostro tempo. Una crisi destinata ad aggravarsi nel prossimo futuro quando si produrrà sempre di più con molto meno lavoro. Bisogna ricercare nuove politiche nazionali e locali capaci di ridistribuire le ricchezze, di offrire nuova occupazione anche riducendo gli orari di lavoro, di favorire l’accesso paritario delle donne alle risorse, all’occupazione, ai mercati e al commercio, di sostenere lo sviluppo di un’economia plurale e solidale valorizzando il ruolo e le finalità del “Terzo settore” e di stimolare la realizzazione di esperienze, anche di piccola scala, che possono offrire alternative concrete alla disoccupazione. Allo stesso tempo bisogna operare affinchè in tutto il mondo siano introdotti e difesi gli standard internazionali che proibiscono lo sfruttamento del lavoro minorile e garantiscono il rispetto dei fondamentali diritti economici e sociali dei lavoratori contenuti nelle Convenzioni fondamentali dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) e in numerosi altri documenti internazionali.
4. puntare sulla cooperazione a tutti i livelli. Mai come oggi abbiamo bisogno di una cooperazione internazionale intensa ed efficace. Ma molti governi ritengono che se ne può fare a meno e spesso prevale la miope difesa dei cosidetti “interessi nazionali”. Affidarsi alle leggi del mercato e della competizione globale o a misure di carattere nazionale non serve a risolvere i problemi che dobbiamo affrontare e ad assicurare la governabilità del pianeta. A livello internazionale, l’Onu ha promosso una serie di importanti Conferenze, come il Vertice di Rio sull’ambiente e sullo sviluppo, il Vertice di Copenaghen per lo sviluppo sociale, il Vertice di Pechino sulle donne e il Vertice di Roma sull’alimentazione, nelle quali i governi hanno sottoscritto numerosi impegni che ancora oggi attendono di essere applicati e rispettati. Basti pensare alla cooperazione allo sviluppo: le risorse disponibili nel mondo per l’aiuto ai paesi più poveri hanno toccato il livello più basso degli ultimi 25 anni. Ogni paese ha il dovere di invertire questa tendenza aumentando gli stanziamenti, finalizzando gli interventi alla promozione dello sviluppo umano, accettando un maggiore coordinamento internazionale e promuovendo la cooperazione diretta tra comunità locali.
5. democratizzare l’economia. L’assenza di regole democratiche sulle grandi imprese multinazionali e sulle istituzioni economiche e finanziarie internazionali priva i governi della capacità di controllare le proprie economie e i cittadini di determinare il proprio destino. In particolare, l’assenza di controlli per il rispetto delle Convenzioni dell’OIL e delle norme commerciali internazionali da parte delle grandi imprese multinazionali determina una grave situazione di arbitrio, sfruttamento del lavoro e degrado delle condizioni di vita, del lavoro e dell’ambiente. A livello globale è innanzitutto necessario democratizzare e rafforzare il sistema delle Nazioni Unite, cui spetta il compito di gestire l’interdipendenza, consentendogli di intervenire sulle scelte economiche che sono alla radice dei problemi globali che è chiamato ad affrontare. Occorre procedere alle riforme necessarie perchè il Fondo Monetario, la Banca Mondiale e l’Organizzazione Mondiale per il Commercio agiscano nel rispetto dei principi e degli impegni per lo sviluppo sostenibile fissati dall’Onu, garantendo la trasparenza, la partecipazione e il controllo democratico di tutti i paesi e della società civile. Democratizzare l’economia vuol dire anche modificare quelle regole del commercio internazionale che impediscono il libero accesso ai mercati dei prodotti dei paesi in via di sviluppo. La democratizzazione dell’economia esige, inoltre, una coerente azione anche all’interno dei singoli paesi, delle imprese e dei luoghi di lavoro dove é necessario rimuovere tutte le discriminazioni nei confronti delle donne e promuovere una ripresa di controllo dei governi e dei parlamenti, dei lavoratori e della società civile sui problemi e le scelte da compiere. La democrazia si sviluppa se cresce a tutti i livelli, dalla città all’Onu, e se viene rispettato il principio di sussidiarietà.
6. adottare un modello di sviluppo sostenibile. Pensare di continuare ad espandere l’attuale modello di sviluppo vuol dire alimentare l’ingiustizia e sottrarre diritti alle generazioni future. Bisogna invece ripensare che cosa si produce, come e perché. Bisogna rivedere gli stili di vita personali e collettivi eliminando gli sprechi e gli eccessi, controllando e ripensando i consumi, sostenendo le esperienze di commercio equo e solidale, promuovendo una nuova gestione etica del risparmio. Bisogna mettere fine al deterioramento dell’ambiente da cui dipende il nostro benessere. Le grandi emergenze ambientali (riscaldamento globale, distruzione della biodiversità, deforestazione, desertificazione,…) devono essere al centro dell’impegno degli Stati, delle istituzioni internazionali e degli stessi enti di governo locale.
Questo, noi Popoli delle Nazioni Unite, chiediamo alle grandi imprese, alle istituzioni economiche internazionali, alle forze politiche, ai governi nazionali e all’Onu, dando attuazione a quanto previsto dall’art. 55 della Carta delle Nazioni Unite e agli impegni sottoscritti nelle Convenzioni e nelle grandi Conferenze internazionali. Le risorse non mancano. Per decenni siamo stati capaci di spendere somme enormi per la difesa militare degli stati. Oggi è venuto il momento di spendere quelle stesse risorse per garantire la vera sicurezza delle persone, dei popoli e del pianeta.
La nostra generazione ha la speciale responsabilità di cambiare. Per farlo è necessario passare dalla cultura del dominio e della competizione selvaggia alla cultura della cooperazione e della solidarietà: dalla cultura della guerra alla cultura della pace positiva.
Molto dipende dalle decisioni dei responsabili della politica e dell’economia mondiale. Ma anche ciascuno di noi, donna e uomo, lavoratore, consumatore e risparmiatore, può fare qualcosa: a partire da sè, nella propria famiglia, a scuola o nel luogo di lavoro, nel proprio quartiere o nella propria città.
Abbiamo il diritto di chiedere ma anche il dovere di agire. E, insieme, dobbiamo contribuire a rafforzare la società civile mondiale che sta emergendo attraverso una grande rete di associazioni e organismi di cittadini impegnati nella promozione della pace e dei diritti umani. Anche per questo, dopo le manifestazioni organizzate per il cinquantenario dell’Onu, abbiamo convocato, dal 5 al 12 ottobre 1997, la 2° Assemblea dell’Onu dei Popoli, cui parteciperanno i rappresentanti della società civile di tutto il mondo. Con loro vogliamo dire: basta con “l’ideologia del mercato” e della competizione selvaggia. Lavoriamo insieme per costruire una Economia di Giustizia. Frutto della giustizia sarà la pace.
Perugia, 31 maggio 1997
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