Le rivoluzioni e i dittatori


Paola Caridi - invisiblearabs.com


E’ il primo giorno, per la Libia, senza Gheddafi. Per la Libia – così come è già successo in Tunisia e in Egitto – si apre un nuovo capitolo della sua storia. E sempre in questo 2011, l’anno della tempesta perfetta nel mondo arabo.


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Le rivoluzioni e i dittatori

La Libia non è l’Egitto. E l’Egitto non è la Tunisia. In Libia stiamo intervenendo da mesi, con la foglia di fico di  un intervento di sostegno. E che si fa diretto, attraverso i caccia, solo quando i mezzi usati sono distanti, dal teatro di guerra, dal sangue che scorre, dalla crudezza di ogni conflitto. Eppure anche la Libia, a suo modo, fa parte della tempesta che percorre il sud e l’est del Mediterraneo da poco meno di un anno.

Detto in soldoni: anche il terzo dittatore è scomparso dalla scena della politica araba. Dopo Ben Ali e Mubarak, anche Muammar al Gheddafi non c’è più, dopo quarant’anni e passa. Difficile, certo, persino comprendere la gioia e l’esultanza attorno al suo cadavere denudato. Per favore, però, non pensiamo che questa esultanza, questa gioia siano così distanti dal nostro Piazzale Loreto… E’ uno dei frutti peggiori non solo e non tanto di una guerra di fine regime, ma soprattutto del regime stesso e della dittatura.

Le democrazie, quelle ben cresciute e con una buona manutenzione (sicuramente migliore di quella usata per i tombini e le fogne della mia povera Roma), non dovrebbero produrre la catarsi emotiva di fronte a un corpo senza vita. Anche se alcuni dei blogger che seguo, noti per la loro moderazione, si chiedono dove fossero gli sguardi civilizzati della nostra Europa quando a morire erano magari cittadini, uomini di cui non conoscevamo il nome e il cognome, anonimi avventori delle strade arabe. Uccisi dalla tortura esercitata proprio da quei regimi, attraverso istituzioni – come la polizia – che avevano perso il proprio ruolo al servizio dei cittadini e della nazione. Dov’erano, insomma, le anime belle quando le danze macabre le facevano gli uomini di Gheddafi, di Ben Ali, di Mubarak. La giustizia, lo sappiamo, è altro: non è vendetta. Per favore, però, evitiamo di dar lezioni (la vignetta di Carlos Latuff dice molto).

Dance macabre a parte, è certo che la scomparsa di Gheddafi – persino in questo modo che ha tutto il sapore dell’esecuzione – è la conferma che la tempesta araba prosegue. Gheddafi è il terzo dittatore disinstallato, come dice il web regionale, che già guarda oltre, a Bashar el Assad, considerandolo come il quarto della lista. Che il quarto della lista sia effettivamente il presidente siriano, o non piuttosto quello yemenita, poco cambia, nell’economia delle rivoluzioni. Perché la tempesta perfetta iniziata nel dicembre 2010 in Tunisia continua, e continuerà. Magari interesserà anche il Mediterraneo settentrionale, chissà.

I regimi si salveranno comunque? Riusciranno a mettere in atto quel po’ di controrivoluzione necessaria a far sopravvivere almeno una parte degli uomini dei diversi regimi, e comunque a far resistere i sistemi? Io non credo, perché il Secondo Risveglio arabo è oltre i giochetti del Palazzo, dei Palazzi  e della politica politicante. È un Risveglio talmente profondo, dal punto di vista culturale, che non credo che il vecchio modo di far politica e amministrazione possa resistere all’onda d’urto.

Certo, la Libia è un caso a se stante, visto che pezzi del regime sono passati dall’altra parte, come spesso succede durante le rivoluzioni. E da parte nostra, di un Occidente altrettanto vecchio dal punto di vista della cultura politica e della strategia mediterranea quanto erano vecchi i regimi che stanno crollando a uno a uno, l’unica ricetta finora usata è quella del “giorno per giorno”. Vivacchiare con chi ora è al potere. Che si chiami Gheddafi. O che si chiami Consiglio Transitorio Libico. Senza grandi visioni (che forse non è un male, visto quelle che abbiamo avuto sinora…) e senza neanche quel sano pragmatismo che si coniuga con la conoscenza del territorio e degli uomini.

L’unica cosa che mi auguro, da parte della Roma politica, è che veramente ci sia discontinuità, rispetto al prima. Perché il prima, e cioè i nostri rapporti con Gheddafi, è stata l’ennesima pagina nera nella storia italiana in Libia, dopo quella del colonialismo. Non ci siamo solo turati il naso per il petrolio. Abbiamo anche usato Gheddafi per calmierare un nodo, come quello dell’immigrazione, che abbiamo soprattutto pagato sul piano etico. La malattia più difficile dalla quale guarire. Abbiamo accettato da Gheddafi che facesse il guardiano del nostro braccio di mare, buttando in acqua i diritti dei migranti e il nostro codice morale. Mi auguro che, con la morte di Gheddafi, scompaia anche questo modo di far politica che accetta le peggiori violazioni dei diritti umani per un pugno di voti.

Con tutti i distinguo del caso, però, la Libia non è altrove. È nell’Africa settentrionale, è tra un Maghreb sempre mosso, e l’Egitto in transizione. E’ parte della tempesta perfetta.

Fonte: www.invisiblearabs.com

20 ottobre 2011

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