Le Nazioni Unite e le nuove sfide del diritto internazionale


L’Osservatore Romano


Benedetto XVI, in occasione della Giornata internazionale della pace: "Vorrei invitare l’Onu a prendere ed applicare con coraggio le misure necessarie per sradicare la povertà estrema, la fame, l’ignoranza e il flagello delle pandemie, che colpiscono soprattutto i più vulnerabili".


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Le Nazioni Unite e le nuove sfide del diritto internazionale

L'apertura della LXII sessione annuale dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite e la celebrazione della Giornata internazionale della pace di ieri sono occasione per ragionare, in un contesto globale, sulla possibilità di respingere "la tentazione di affrontare nuove situazioni con vecchi sistemi", come chiese il Papa all'Angelus del 24 agosto, nei giorni dell'inasprimento della crisi nel Caucaso. In questa prospettiva deve muoversi anche la riforma del Consiglio di sicurezza, da tempo e da più parti auspicata. Significativamente, l'ultimo atto della precedente sessione annuale dell'Assemblea generale è stata, il 15 settembre, l'adozione unanime di una risoluzione che impegna ad avviare entro il febbraio prossimo negoziati tra le capitali del pianeta per riformare l'organismo.
Purtroppo, le risoluzioni dell'Assemblea generale – comunque di alto valore politico e morale – non sono vincolanti e nessun osservatore ignora che l'acuirsi delle tensioni allontana le prospettive di riforma delle istituzioni sovranazionali. È un paradosso, perché una tale riforma è tanto più necessaria in un momento che chiede unità d'intenti e concordia d'azione per fronteggiare minacce planetarie di cui fanno le spese soprattutto le aree e le popolazioni più povere. Gli attuali assetti internazionali, precari e al tempo stesso sclerotizzati, rendono infatti inadeguati nelle crisi contemporanee gli strumenti che la comunità internazionale si è data per arginare e risolvere i contrasti. Dalla coscienza di tale situazione, tra l'altro, hanno preso le mosse le posizioni assunte più volte nei contesti internazionali dalla Santa Sede e dallo stesso Benedetto XVI. Basti pensare al discorso tenuto dal Papa in aprile alle Nazioni Unite.
Le crisi in atto – quella esplosa quest'estate nel Caucaso, le tensioni in atto in America latina, le irrisolte questioni nel vicino e nel medio Oriente, per citare solo i casi più macroscopici – hanno certo forti componenti etniche, se non identitarie, oltre che essere conseguenza di contrastanti interessi economici e geopolitici in senso lato. Ma altresì mostrano una fase di stallo, se non di regresso, nello sviluppo del diritto internazionale. Così come il controllo delle risorse energetiche, strategiche in questi anni quanto mai prima, si sposa da tempo alle irrisolte questioni dell'autodeterminazione dei popoli.
Un buon promemoria per questa Assemblea generale delle Nazioni Unite potrebbero essere proprio le parole di Benedetto XVI del 24 agosto. "La forza morale del diritto; trattative eque e trasparenti per dirimere le controversie, a partire da quelle legate al rapporto tra integrità territoriale e autodeterminazione dei popoli; fedeltà alla parola data; ricerca del bene comune: ecco alcune delle principali strade da percorrere, con tenacia e creatività, per costruire relazioni feconde e sincere e per assicurare alle presenti e alle future generazioni tempi di concordia e di progresso morale e civile".
Per quanto riguarda il diritto internazionale degli Stati, resta in sospeso la questione cruciale della distanza tra autonomia e indipendenza. Né certo è da sottovalutare in quest'ambito la paralisi registrata all'Onu, dove ancora prevalgono i veti incrociati, sui recenti casi del Kosovo e, appunto, del Caucaso. Anche questi casi mostrano l'urgenza di trovare soluzioni nuove. In questo senso, è certamente interessante l'iniziativa della Serbia di chiedere il sostegno dell'Assemblea nel ricorso presentato alla Corte internazionale di giustizia dell'Aja contro la secessione kosovara. Quale che sia l'esito di tale richiesta, resta significativa la determinazione esplicitamente dichiarata da Belgrado di non ricorrere a "l'utilizzo della forza o a sanzioni economiche". Di portare cioè la vicenda dal piano dei rapporti di forza a quello del diritto internazionale condiviso.
Per arrivare a quel salto di qualità da molti auspicato, servirebbe appunto una riforma autentica dell'Onu, che l'avvicini a quell'ideale progetto di farsi famiglia di Nazioni, secondo l'espressione usata nel 1995 da Giovanni Paolo II. Una famiglia capace di prendersi cura di tutti i propri membri, dai più forti ai più deboli, e di accogliere i nuovi nati. Una famiglia capace di "riappropriarsi dell'alta visione morale e dei principi trascendenti di giustizia contenuti nei documenti fondanti delle Nazioni Unite", come ha auspicato Benedetto XVI in un messaggio inviato ai partecipanti all'incontro ecumenico di preghiera tenuto, come ogni anno, alla vigilia dell'apertura dell'Assemblea generale, per iniziativa dell'arcidiocesi di New York e dall'Osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite.
Serve una riforma che consenta all'Onu di superare le ipoteche ricevute in eredità dalla seconda guerra mondiale, di accentuare il multilateralismo nelle fasi decisionali, di acquisire potere di intervento, di essere controllata non solo dai Governi, ma anche dai popoli, in forme tutte da inventare, ma che coinvolgano le realtà portatrici di esigenze generali.
Un contributo in questo senso può venire dal dialogo tra religioni e cultura e dal confronto rispettoso tra un'autentica laicità e un autentico sentire religioso, capaci di scrollarsi ogni estremismo e di porsi in un "dialogo sereno e positivo", come si è espresso il Papa nel recente viaggio in Francia.
Non solo nei rapporti tra Stati e confessioni religiose, ma nel più generale contesto delle relazioni internazionali, quella del dialogo è l'unica prospettiva che non sia potenzialmente devastante. Servono dunque strumenti nuovi per sostituire "il dialogo e la buona volontà comune", come ha detto sempre quest'estate Benedetto XVI, all'Angelus di domenica 17 agosto, a quella sorta di inimicizia controllata che alcuni ritengono l'unica possibile definizione della diplomazia.

Pierluigi Natalia

Fonte: Osservatore Romano

21 settembre 2008

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