La trappola di Putin
Sandro Viola
Mosca ferma i carri armati e si dichiara pronta a discutere. Il piano di pace è già pronto, ma ci si interroga su quali saranno le conseguenze di questa "guerra d’agosto" e quali le prossime mosse dei due paesi.
La guerra nel Caucaso è finita. Ci saranno ancora, come dopo ogni cessate il fuoco, sporadiche sparatorie, e forse altri morti e feriti. Ma lo scontro tra Russia e Georgia sui campi di battaglia è ormai concluso. Possiamo quindi dare una prima occhiata a quel che è uscito dalla guerra. E questa rapida occhiata mostra tre cose. Le forze armate georgiane sono in rotta; Putin viene osannato in Russia come uno zar trionfatore, avendo vinto in cinque giorni la prima guerra esterna che i russi combattevano dal Natale 1979, quando avevao invaso l’Afghanistan; l’America conosce l’ennesimo scacco degli otto anni di Gorge W. Bush.
Putin aveva teso a Mikhail Saakashvili una trappola perfettamente congegnata, e il georgiano vi s’è ficcato senza esitare. Da quando la loro “intelligence” aveva capito ch il bollente georgiano aveva deciso di muovere il suo esercito, i russi avevano ammassato truppe, spostato aerei, sul confine tra Russia e Ossezia meridionale. Si spiega così la fulminea controffensiva di giovedì 7 agosto con cui hanno sbaragliato i georgiani, facendo durare la guerra (come volevano, in modo da evitare una troppo rumorosa reazione internazionale) soltanto cinque giorni. Mentre quel che non s spiega è come mai i servizi d’informazione americani, presenti da tempo in Georgia, non abbiano fermato in tempo Saakashvili.
Dopo questa prima occhiata bisogna ora guardare un po’ più da vicino alle conseguenze del conflitto d’agosto, l’ ”utile guerricciola” di cui si sentiva parlare a Mosca da qualche settimana. Conseguenze nell’ambito regionale, e altre sul piano internazionale. La prima da elencare, è che le legittime pretese dei georgiani di ristabilire la propria sovranità sulle province secessioniste, Ossezia del sud e Abkhazia, si sono a questo punto dissolte. Il precedente del Kossovo verrà usato dal Cremlino per tacitare le proteste degil occidentali, e le due province non rientreranno più nella Georgia. Quanto a Saakashvili, per ora i russi eviteranno di buttarlo giù in modo da evitare che li si accusi d’una manovra di “regime ch’ange” come quella con cui gli americani liquidarono Saddam Hussein. Ma il presidente georgiano potrebbe essere alla fine della sua carriera. Una reazione popolare per la catastrofica sconfitta è probabile, e i servizi segreti russi sono già pronti per scatenarne lo scoppio. Se avverrà, l’uscita di scena dell’incauto Saakashvili sarà poi colma di significati per ogni altro governante dei paesi ex sovietici. Essa vorrà infatti dire che non ci si può fidare degli abbracci americani, dei prematuri inviti ad entrare nella Nato, perché i russi si sono dimostrati chiarissimi: quei paesi sono nella loro zona d’influenza, e la loro libertà di movimento è relativa. Sembra d’essere tornati all’Ottocento? Sì, ed è facile spiegare perché. Svuotata della zavorra ideologica, la rivalità tra Russia e Stati Uniti si configura ormai come pura politica di potenza, anche se resa meno pericolosa dalle esigenze dell’economia globalizzata.
La guerra nel Caucaso non rappresenta dunque soltanto un clamoroso successo di Vladimir Putin ( di Medvedev, di potere bicefalo a Mosca, s’è visto che non ha senso parlare: c’è una sola testa, quella dell’ex ufficiale del Kgb, a dirigere le mosse della Russia). Di fianco a quel successo, al linguaggio duro che i russi stanno parlando, ai segni sempre più frequenti d’una loro mentalità neo-imperiale, c’è l’indebolimento dell’America. Non ci sarebbero infatti i toni ultimativi, l’arroganza, la spavalderia di Putin, se gli Stati Uniti non fossero passati in otto anni da un disastro a un altro, disastri politici, militari, e crisi economico-finanziaria. Se il loro prestigio non fosse andato parzialmente in cenere tra Guantanamo e Abu Ghraib.
Né ci sarebbe stata (adesso, e nelle forme che ha avuto) la guerra d’agosto nel Caucaso, senza l’incredibile avventatezza con cui Bush aveva montato l’ “alleanza” Washington – Tblisi. Presentanto Saakashvili come uno statista di prima grandezza, sbandierando l’idea d’una rapido ingresso nella Georgia della Nato, mandando a Tblisi consiglieri e istruttori militari . Su questo non ci sono dubbi: gli errori americani nel guardare alla Russia di Putin (nonostante i decantati studi russo-sovietici di Condoleeza Rice) sono serviti al “ritorno della Russia” anche più dei prezzi di petrolio e gas, aumentati sei volte da quando a Mosca si è insediata al potere una consorteria di ex agenti segreti.
E fortuna che gli alleati europei siano riusciti a fermare il presidente americano sull’orlo del crepaccio. Come sarebbe più complicata e rischiosa oggi, infatti, la situazione, se all’ultimo vertice Nato gli europei non avessero bloccato la procedura d’adesione della Georgia, calorosamente, insistentemente richiesta da George W.Bush. Ma anche se sono riusciti ad evitare il peggio, resta che gli alleati dell’America devono adesso affrontare un compito molto difficile. Prendere le misure, loro prima del nuovo presidente americano, della politica di potenza, neo-imperiale, d’un regime furbo, cinico, sfrontato e con grandi mezzi finanziari a disposizione, che sembra deciso a cogliere il momento della debolezza dell’Occidente.
Questa debolezza non è militare, strategica, perché le forze armate russe sono ancora in via di riorganizzazione, e ci vorranno quindi parecchi anni prima che esse possano costituire (compreso il settore delle armi nucleari) una minaccia. Ma il fatto è che il nazionalismo russo, la spinta rabbiosa a ricucire le ferite, lenire le umiliazioni della terribile sconfitta subita dalla Russia sovietica, rappresentano oggi una forza, uno spirito vitale come si diceva un tempo, che in Occidente oggi non si colgono. Il momento è russo. Sono i russi a battere forte i piedi, a spintonare, sulla scena internazionale. Come ebbri, per così dire, dopo le affermazioni ottenute negli ultimi due-tre anni, per le gigantesche riserve valutarie, per il possesso delle risorse energetiche di cui l’Europa ha sete, per la libertà di movimento che i regimi autoritari hanno sempre rispetto alle democrazie, per il massiccio consenso di cui il regime gode all’interno. Era già difficile sino all’altro giorno, per gli occidentali, indovinare, prevenire o fronteggiare le mosse della Russia di Putin. E da domani sarà ancora più difficile.
Fonte: La Repubblica
13/08/2008