La sinistra è sociale


Mario Pianta


E’ dalla democrazia come partecipazione che serve oggi partire. La radicalità della sconfitta richiede l’azzeramento dei gruppi dirigenti e lo scioglimento delle organizzazioni esistenti, per pensare a una formazione politica radicalmente nuova.


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La sinistra è sociale

La vittoria elettorale di Berlusconi era prevista, non lo era la completa sconfitta della sinistra. Il comportamento politico degli elettori è il risultato di molti fattori che combinano identità di lungo periodo e  interessi immediati, aspettative e paure, e lo spostamento a destra del voto non significa che non esista più una sinistra nella società. Anche in questa sconfitta, solo chi guarda unicamente ai palazzi della politica può pensare che tutto sia perduto.
Cominciamo dalle identità. Le identità politiche tradizionali della sinistra socialista e comunista, ma anche ecologista, sono state consumate da decenni di profondi cambiamenti sociali e dalla deriva politicista che ha allargato anche a sinistra la distanza tra palazzi e cittadini. Identità “forti” di quel tipo non si possono ricostruire oggi. Ma si può iniziare a riconoscere quello che c’è “di sinistra” nella società: le identità individuali e le energie collettive che chiedono uguaglianza, giustizia economica e sociale, tutela del lavoro, democrazia, pace, protezione dell’ambiente. In che misura tutto questo può diventare il fondamento di una sinistra politica? Si è sempre detto che la società civile afferma valori, su cui si costruiscono identità parziali, difficili da ricondurre a una visione politica d’insieme, lontani dall’esigenza di tutela degli interessi concreti dei cittadini.
Eppure le forti mobilitazioni sociali di questi anni – sul precariato come sui diritti civili, sulle politiche di guerra come sull’ambiente locale – hanno effettivamente coniugato valori e interessi materiali, hanno saputo esprimere proposte politiche, costruire piccole prospettive di cambiamento. Il fallimento della politica – e del governo Prodi – è stata l’incapacità di interpretarle e, soprattutto, di realizzare almeno qualcuno dei cambiamenti possibili, perfino quelli più modesti. Non c’è da stupirsi che questa ricchezza sociale sia rimasta invisibile in una campagna elettorale schiacciata sulla polarizzazione tra Pd e Pdl, su una comunicazione dominata dai media, sulla celebrazione di una democrazia rappresentativa sempre più all’americana.
Invece, è dalla democrazia come partecipazione che serve oggi partire. La radicalità della sconfitta richiede l’azzeramento dei gruppi dirigenti e lo scioglimento delle organizzazioni esistenti, per pensare a una formazione politica radicalmente nuova. Questo non vuol dire ricostruire tutto da zero; un nuovo progetto politico può integrare molte preziose risorse sociali e organizzative che già esistono. Deve necessariamente aprirsi all’adesione individuale, anche se è difficile aspettarsi un sussulto di iscrizioni in massa a un soggetto ancora da costruire. Nel frattempo, la spina dorsale del progetto possono essere le reti di società civile che hanno tradotto i valori in proposte politiche, sviluppando identità multiple e tolleranti, capaci di vedere il rapporto con la politica non come una affermazione di identità non negoziabili, ma come la faticosa pratica di tradurre i principi in pratiche, in politiche concrete che possano essere realizzate – nella politica locale, in quella nazionale, e a scala mondiale. Gli esempi sono moltissimi: le reti di mobilitazioni locali a tutela dei territori – dai No Tav ai No Ponte – la campagna Sbilanciamoci per una politica economica a misura di società, le reti che lavorano sul welfare e sull’altraeconomia, la Tavola della pace e la Rete per il disarmo sui temi delle guerre e della politica internazionale, Libera e le realtà che la circondano sui temi delle mafie e della legalità, le campagne sui diritti civili di tutti, le reti femministe, parti del sindacato, le lotte sui beni comuni e l’acqua, e così via. Sono qui molte delle idee e delle energie che possono cambiare la politica e le politiche. E’ ora il momento di accorgersene.

Fonte: il Manifesto 

15 aprile 2008 

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