La sconfitta di Unama a Kabul


Emanuele Giordana - Lettera22


Con “effetto immediato” le Nazioni Unite hanno deciso di ridurre il personale presente in Afghanistan. Via metà dei funzionari internazionali.


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La sconfitta di Unama a Kabul

Sul sito internet di Unama, la missione Onu in Afghanistan, la notizia non prende più di sei righe. Non fa numeri. Dice solo che, con “effetto immediato” le Nazioni unite hanno deciso di ridurre il personale presente in Afghanistan. Sia internazionale, sia nazionale.
Ma in realtà, dopo la strage del 28 ottobre nella quale i talebani hanno ucciso a Kabul tre funzionari occidentali delle Nazioni unite e tre afgani, la decisione riguarda solo i “bianchi”. E i numeri li fa più in conferenza stampa Kai Eide, il diplomatico norvegese che guida Unama dal marzo del 2008. Seicento funzionari, dei 1300 internazionali che, per diverse agenzie, lavorano nel sistema di cui Unama funge da ombrello, saranno “ridislocati”. Mandati a casa, in una parola anche se, Eide tiene a precisarlo, “temporaneamente”. Anzi, precisa, ci sarà anche un movimento interno: alcuni saranno spostati da un'area all'altra del paese, altri invece lo lasceranno. Rimarranno comunque i circa 5.600 con contratto locale, personale nazionale, che compongono lo staff che adempie ai compiti di frontiera: gli aiuti di emergenza, in una parola, alimentari o sanitari che, assicura Eide, non subiranno contrazioni o ritardi. L'inverno alle porte è una preoccupazione in più.
Forse a sottolineare che l'AfPak – l'acronimo che fonde i due paesi – è davvero una realtà, le Nazioni unite (è chiaro che se a Kabul la scelta dipende da Eide, l'ultima parola viene dal Palazzo di vetro) hanno appena preso una decisione simile qualche giorno fa in Pakistan: lunedi scorso una scelta analoga è stata fatta per i progetti Onu a lungo termine nel Nord e Sud Waziristan, proprio per i rischi che il personale soprattutto straniero corre in quest'area del paese al confine con l'Afghanistan. Ma se la decisione sul Pakistan passa un po' in sordina e guadagna solo qualche riga nei notiziari, la scelta su Kabul assume tutt'altro sapore. Quello di una sconfitta, tanto per cominciare. E di un arretramento della componente civile in un paese dove, assai faticosamente, l'Onu cerca di smarcarsi dalla presenza ingombrante della Nato, il vero potere che traccia il solco da seguire. Tutto militare.
In cosa consista esattamente il piano di evacuazione non è ben chiaro: né si sa con esattezza quanti del Pam – l'agenzia degli aiuti alimentai – faranno le valigie o quanti dell'Undp o dell'Unicef – il Programma per lo sviluppo o il Fondo dell'infanzia – si sposteranno da Kandahar a Kabul, faranno ritorno a New York o, più semplicemente, come avvenne per l'Iraq, si sposteranno in un paese limitrofo (con la differenza che Amman era assai più sicura di Islamabad). Né è chiaro, ed è questo l'aspetto più preoccupante, cosa accadrà dei programmi dove l'Onu interviene e che riguardano il delicatissimo aspetto dell'aiuto umanitario.
Proprio nei giorni scorsi, quando l'Unione europea ha riconfermato il suo impegno finanziario in Afghanistan, un cartello di Ong europee ha fatto evidente riferimento al fatto che i paesi europei tendono a investire – in aiuto bilaterale, cioè da governo a governo – nelle aree dove ci sono i propri contingenti militari: una scelta strategica comprensibile ma che non ha nulla a che vedere con l'aiuto umanitario, che dovrebbe seguire i bisogni primari e non le tattiche diplomatico-militari. E sta proprio qui il cuore del dibattito che in questi mesi ha attraversato tutte le agenzie dell'Onu in Afghanistan: lo sforzo per essere i garanti che lo sviluppo, la ricostruzione e l'aiuto seguano le regole di una neutralità che tenga in conto prima di tutto le esigenze della popolazione civile.
La decisione dell'Onu dunque spiazza l'opzione civile, già in seria difficoltà in un paese dove il numero dei combattenti è enorme e diviso tra forze Nato (100mila uomini di cui 68mila americani) esercito nazionale, combattenti della guerriglia e un ulteriore battaglione di contractor nell'ordine delle migliaia (che creano problemi agli stessi militari).
Il pensiero corre al 2003 e all'attentato che fece strage nella sede dell'Onu di Bagdad. Lo choc fu terribile e sul terreno, assieme a molti altri, cadde anche uno degli uomini di punta del Palazzo di vetro: Sergio Viera de Mello. Anche allora a New York decisero per il ritiro del “contingente” civile e in un momento in cui sarebbe più che mai servito proprio per evitare una totale militarizzazione della gestione del dopo guerra (che poi si rivelò guerra totale). In Afghanistan il dibattito a riguardo non di ieri. A Eide è piovuta addosso l'accusa di non essere stato in grado di smarcare Unama dalla percezione diffusa che l'Onu fosse solo un altro degli aspetti della macchina bellica occidentale: lo scontro è stato duro tanto che, nel dicembre scorso, e nonostante l'opposizione di Eide, l'Ufficio per gli affari umanitari (Ocha) con sede a Ginevra richiese ed ottenne di aprire sedi a Kabul e in altre aree del paese. Col mandato di verificare e aggiustare in corsa la missione dell'Onu in Afghanistan il cui mandato è quello di assistere la ricostruzione e i bisogni della popolazione civile. Una missione impossibile, in un paese dove otto anni di guerra recente, sovrapposti ad altri venti di conflitto, hanno deteriorato l'immagine dell'aiuto umanitario, percepito come una foglia di fico che in realtà mette solo qualche cerotto. Immagine che, da ieri, risulta ancora più indebolita.
Paradossalmente può darsi che alla popolazione locale, per quel che ha tratto dalla sua presenza, importi poco del ridimensionamento di Unama. Molti forse penseranno che ci sono in meno da sfamare 600 bocche dagli stipendi milionari (che in realtà sono assai più bassi di quanto non riceva ad esempio un esperto che lavora per un ufficio di cooperazione governativa straniera). Ma il passo indietro dell'Onu indebolisce comunque l'unica vera garanzia che la vicenda afgana non prenda soltanto una piega eminentemente militare, opzione che si è già dimostrata fallimentare.

Fonte: Lettera22 e il Manifesto

6 novembre 2009

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