La rivoluzione con gli occhi di Hagg Amin
Paola Caridi - invisiblearabs.com
“In fondo, volevo sapere da Hagg Amin se la rivoluzione aveva toccato anche lui. Sul lavoro, certo. Lui fa i vestiti non solo per la vecchia borghesia di Zamalek, ma soprattutto per gli expat (me compresa), e gli expat, in molti, se ne sono andati, durante la Thawra. Pochi i vestiti appesi, quasi nulla da fare”.
Il passaggio è veramente stretto. Un metro, poco più, lungo le vetrine un bugigattolo che vende argento. Souvenir e non solo. A destra, si accede al palazzo, uno di quei tipici palazzi del centro del Cairo, affastellamento di vite, lavori, ceti sociali i più diversi tra loro. Nell’androne, il piccolissimo laboratorio di un sarto e un negozio di materiale elettrico che ora sembra serva solo al suo vecchio proprietario come passatempo. Per evitare di stare a casa e continuare a vedere gli amici. Nel secondo androne, appena oltre la prima corte, partono le scale del palazzo. Lungo la parete, i segni di una decadenza che rasenta i danni strutturali. Crepe profonde lungo il muro, in verticale.
Il laboratorio di Hagg Amin è però a sinistra, in uno scantinato. Sono arrivata in automatico. Sono state le gambe a portarmi in un posto che non vedevo da otto anni, e che ho ritrovato senza neanche averlo messo in programma. Nel mio piccolo corso di aggiornamento sulla Rivoluzione egiziana, la visita a Hagg Amin non l’avevo contemplata. La memoria, però, è uno strano oggetto, da maneggiare con cura e che vive di vita propria. La mia memoria del Cairo aveva deciso che non potevo non andare da lui, vero figlio del popolo, per capire cos’era successo, dal 25 gennaio in poi.
Quando sono arrivata alla porta del suo laboratorio, ho avuto paura. E se fosse morto, nel frattempo? Hagg Amin non è giovane, come dice il suo appellativo. Ma non bisogna essere pessimisti, nella vita. Io non lo sono mai stata. E anche stavolta ho avuto ragione. Hagg Amin è sceso dal soppalco dove ha la sua vecchia macchina da cucire. Mi ha visto, ci ha pensato, e poi mi ha indicato una vecchia busta con Titti, il personaggio dei Looney Tunes. “Questa busta me l’hai data tu”. Dopo otto anni…
Il Cairo è anche questo. Gli egiziani sono anche questo. Persino in un posto in cui si pensa che non si potrebbe mai incontrare un povero sarto che vive in un quartiere molto popolare, e che poi, a metà giornata, se ne va nel suo piccolo, insalubre laboratorio. A Zamalek. La ricca Zamalek, il rifugio degli expat, a cento metri di distanza dal Marriott costruito attorno a una vecchia residenza reale, a poche decine di metri da una serie infinita di ambasciate, residenze, palazzi d’antan. La grande oasi del Gezira Club è a un tiro di schioppo. E Hagg Amin è la perfetta rappresentazione delle contraddizioni perenni e infinite del Cairo, quelle contraddizioni per le quali molti di noi Cairo-addicted abbiamo amato una megalopoli che, a prima vista, respinge e intimorisce.
In fondo, volevo sapere da Hagg Amin se la rivoluzione aveva toccato anche lui. Sul lavoro, certo. Lui fa i vestiti non solo per la vecchia borghesia di Zamalek, ma soprattutto per gli expat (me compresa), e gli expat, in molti, se ne sono andati, durante la Thawra. Pochi i vestiti appesi, quasi nulla da fare.
Pur essendo una expat come tante altre (e per giunta non più al Cairo), io ho con Hagg Amin un rapporto particolare. Da quando mi cucì malamente un vestito e io dovetti dirgli che mio padre per tutta la vita ha fatto il sarto. Un suo collega, insomma, che aveva macinato ago e filo. Sapevo bene, insomma, non solo come riconoscere gli errori, le cuciture tirate via. Ma anche la fatica di un lavoro che piega la schiena e fa calare la vista. Da allora, il nostro rapporto è cambiato: Hagg Amin cura di più il suo lavoro, e mi fa addirittura la sconto. Da povero sarto. Uno sconto che non posso rifiutare, perché si offenderebbe, ma che mi fa male.
Hagg Amin la rivoluzione l’ha vista in televisione. “Volevo andare a Tahrir, ma sono troppo vecchio”. Hagg Amin la rivoluzione l’ha vissuta tornando ogni giorno al suo quartiere. È il comitato di quartiere che gestisce la sicurezza. A lui non chiedono i documenti, ma agli altri sì, da quando la polizia se n’è andata dalle strade. Hagg Amin è contento della rivoluzione. È contento della libertà. Anche se, ora, gli ha portato via i suoi expat e molto del suo lavoro. Ma i suoi occhi sono felici. Il Nuovo Egitto gli piace, gli ha riportato un orgoglio perduto. Ci sono tornata più volte, durante il mio piccolo corso di aggiornamento sulla Rivoluzione. L’ho trovato a volte seduto sulla vecchia poltrona, perché il lavoro non c’è. Gli ho portato lino e modelli da copiare. Li ha fatti di gran corsa, e puntuale (gli egiziani sanno essere puntuali, quando vogliono e quando trovano qualcuno davanti a loro che li rispetta). Abbiamo continuato a parlare, di libertà e timori, di soldi che non ci sono, di gossip italiano. Persino, ahimè, della “nipote di Mubarak”. E io gli ho lasciato un’altra busta dove poter mettere stoffe e ritagli. Con la speranza – la prossima volta – di vederla appena all’ingresso, come quella con Titti.
L’epopea del tessile egiziano è finita da molto (ne ho già parlato, sul mio blog, due anni fa). Anche se, come spesso è accaduto nella storia egiziana, è proprio dal tessile, dall’aristocrazia operaia del paese, che parte la spinta delle proteste. E’ successo nel 2008 a Mahalla, una protesta tanto forte che oggi, ex post, si può interpretare dal punto di vista storico come il prodromo della rivoluzione del 25 gennaio. E sempre Mahalla, non a caso, è stata sia uno dei centri della Thawra, sia – e non è causale – uno dei centri degli investimenti europei sul tessile, sul cui significato e sulla cui strategia di delocalizzazione dovremo un giorno o l’altro interrogarci.
Analisi storico-politica a parte, Hagg Amin rimane, per me, non solo una persona cara, un uomo del popolo, espressione della strada araba. E’, a buon titolo, uno degli uomini per i quali questa rivoluzione è stata fatta.
La foto (il tipico tavolino dei rocchetti dei sarti, identico a quello che aveva mio padre in sartoria a Roma) è stata scattata al Cairo, a downtown, in quello che tutti conosciamo come il palazzo dei sarti. Uno di quei palazzi meravigliosi, decadenti e slabbrati di Talat Harb, divenuto cencioso e sporco, senza manutenzione di sorta, suddiviso in piccolissimi laboratori dove si cuce di tutto. Dai jeans per le grandi marche agli abiti da lavoro, dagli abiti da sera per le expat ai pantaloni per la vecchia borghesia. La foto è stata scattata da Francesco Fossa. Tra il 2002 e il 2003.
Fonte: Blog di Paola Caridi http://invisiblearabs.com/
31 marzo 2011