La ricetta della Banca Mondiale: più denaro alla Palestina
Emma Mancini - nena-news.globalist.it
La Banca Mondiale lancia l’allarme sulla situazione dell’economia interna. La soluzione? Agire a valle e non a monte, senza porre fine alle politiche israeliane.
Restrizioni israeliane, embarghi e crisi economica. Queste le tre principali ragioni della grave perdita di competitività dell’economia palestinese, secondo la Banca Mondiale. Che prevede ulteriori peggioramenti nel 2013. Nel rapporto che la Banca Mondiale presenterà a Bruxelles il prossimo 19 marzo alla riunione dei donatori internazionali, l’istituzione finanziaria punta il dito contro l’assenza di negoziati di pace che, combinata alla crisi finanziaria dell’Autorità Palestinese, ha completamente affossato l’economia di produzione dei Territori Occupati.
Certo, non una grossa scoperta: che la Palestina abbia visto la propria economia annullata dai meccanismi diabolici degli Accordi di Oslo e annientata dalle politiche di occupazione israeliana non è una novità. Ma il fatto che una simile analisi giunga da un’istituzione come la Banca Mondiale – non certo additabile come fondo di solidarietà e sostegno alle economie dei Paesi in via di sviluppo – stupisce di più.
Probabilmente l’obiettivo della Banca Mondiale è lanciare un avvertimento ai finanziatori internazionali dei Territori, ovvero tutelare i Paesi più ricchi del globo, che fanno piovere sul governo di Ramallah miliardi di dollari senza che la situazione di fatto cambi di una virgola.
“Se è indispensabile porre attenzione alla crisi finanziaria sul breve periodo, è importante riconoscere che l’esistenza di un sistema di chiusure e restrizioni sta creando un duraturo danneggiamento della competitività economica dei Territori Palestinesi. Più a lungo l’attuale restrittiva situazione perdurerà, più tempo e denaro costerà la ristrutturazione dell’economia interna”.
In particolare, a preoccupare la Banca Mondiale è l’incapacità di competere all’interno del mercato globale, di esportare all’estero e di importare materie prime. Una difficoltà rintracciabile nel famigerato Protocollo di Parigi, firmato nel 1995 e che impedisce all’Autorità Palestinese di gestire in autonomia i propri flussi commerciali: “Ad Israele con gli accordi firmati a Parigi viene assegnata la gestione totale dei confini e quindi il controllo di import e export – spiega a Nena News Basel Natsheh, professore di economia alla Hebron University – Ciò ha fatto sì che importazioni e esportazioni da e per i Territori siano diventate sempre più complesse, spesso le piccole imprese palestinese non riescono a reperire materiale di produzione”.
“Non solo: è Tel Aviv che decide cosa i Territori possono produrre – continua il professor Natsheh – Le imprese palestinesi possono esportare in Israele solo i prodotti che secondo le autorità israeliane rispettano gli standard interni: standard elevatissimi, molto più rigidi di quelli europei, che nella pratica eliminano dal mercato la produzione palestinese. Infine, Israele impone all’Autorità Palestinese di importare beni solo dai Paesi con cui Tel Aviv ha stipulato trattati di pace – Egitto e Giordania – escludendo quelli considerati nemici, come Libano, Siria e Iran”.
Come riporta il rapporto della Banca Mondiale, infatti, a declinare sono state soprattutto le esportazioni di prodotti agricoli e manifatturieri: dal 10% del totale nel 1996 al 7% di oggi, uno dei valori più bassi al mondo. A ciò si aggiunge l’impennata subita dal tasso di disoccupazione, inferiore al 10% negli anni Novanta e oggi volato al 26% in Cisgiordania e ad oltre il 40% nella Striscia di Gaza: “A causa della bassa partecipazione al mercato del lavoro e della lunga durata della disoccupazione, molti palestinesi in età da lavoro non hanno l’opportunità di migliorare le proprie capacità lavorative”, continua la Banca Mondiale.
Infine, la mancanza di infrastrutture chiave, dalle vie di trasporto al controllo delle risorse idriche.
La soluzione, secondo gli esperti della Banca Mondiale? Far piovere altro denaro: 870 milioni di dollari per la rete idrica a Gaza, 430 milioni per i servizi comunali, 200 milioni per l’elettricità e un miliardo per le infrastrutture stradali. Ovvero, intervenire di nuovo a valle, senza tener conto di quanto succede a monte: se la comunità internazionale non interviene per porre fine alle politiche di occupazione israeliane, è estremamente difficile che la situazione cambi. Inutile ricoprire di denaro l’Autorità Palestinese, governo senza alcun tipo di autonomia decisionale e la cui economia è totalmente dipendente da quella dell’occupante.
Fonte: Nena News
13 marzo 2013