La nonviolenza in Italia? Un cammino in salita
Mao Valpiana
Ricorre oggi il 60° anniversario della morte di Mohandas K. Gandhi, che è stato della nonviolenza il più grande e profondo pensatore e operatore, cercatore e scopritore. Fondatore della nonviolenza come proposta d’intervento politico e sociale e come progetto di liberazione e di convivenza.
Non ha partecipato ai festeggiamenti per l’indipendenza indiana, dopo averla conquistata con il satyagraha (la forza della verità o nonviolenza), perché la separazione tra India e Pakistan è stata per lui una grande sconfitta. E’ morto assassinato da un giornalista indù, alla testa di un complotto, che non gli aveva perdonato la sua azione per la riconciliazione religiosa e la sua apertura ai musulmani. Gandhi, che era di religione indù, fu considerato dai fondamentalisti di entrambe le parti come un traditore. Sono passati 60 anni, da quel 30 gennaio del 1948, e il fondamentalismo religioso è ancora un pesante ostacolo per tanti processi di pacifica convivenza.
Dunque, non si può parlare di Gandhi senza riferirsi alla sua esperienza e alla sua definizione di religione: “E’ l’elemento permanente della natura umana; non ritiene nessun sacrificio troppo grave per trovare piene espressione e lascia l’anima totalmente inquieta fino a che non ha trovato se stessa, conosciuto il suo Creatore e sperimentato la vera corrispondenza fra il creatore e se stessa”. E poi prosegue: “Per me Dio è verità e amore; Dio è etica e morale; Dio è coraggio. Dio è la fonte della luce e della vita e tuttavia è di sopra e di là di tutto questo. Dio è coscienza. E’ perfino l’ateismo dell’ateo. Trascende la parola e la ragione. E’ un Dio personale per coloro che hanno bisogno della sua presenza personale. E’ incarnato per coloro che hanno bisogno del suo contatto. E’ la più pura essenza. E’, semplicemente, per coloro che hanno fede. E’ tutte le cose per tutti gli uomini. E’ in noi e tuttavia al di sopra e aldilà di noi…”.
Siamo in presenza di una religione aperta, libera, accogliente, amorevole, umana. La religione di Gandhi coincide con la ricerca della Verità, perché Dio stesso è Verità, e la Verità è Dio. In questo senso per Gandhi ogni problema che si pone, ogni questione che si deve affrontare, politica, sociale, economica, etica, collettiva o personale, è una sfida religiosa: “per me ciascuna attività, anche la più modesta, è guidata da quella che io considero la mia religione… la mia attività politica, come tutte le altre mie attività, procede dalla religione… perciò anche nella politica dobbiamo stabilire il regno dei cieli”. Tuttavia in Gandhi c’è posto anche per una piena laicità. Ha saputo essere, insieme, un grande religioso e una grande statista: “se fossi un dittatore, religione e Stato sarebbero separati. Credo ciecamente nella mia religione. Voglio morire per essa. Ma è una mia faccenda personale. Lo Stato non c’entra. Lo Stato dovrebbe preoccuparsi del benessere temporale, dell’igiene, delle comunicazioni, delle relazioni con l’estero, della circolazione monetaria e così via, ma non della vostra o mia religione. Questa è affare personale di ciascuno”.
Forse non è un caso che Gandhi avesse una grande ammirazione proprio per due italiani, San Francesco d’Assisi e Giuseppe Mazzini, un religioso e un laico.
Oggi nel mondo intero Gandhi è considerato il profeta della nonviolenza, ma il rischio è quello di farne un santo, un eroe, un simbolo, un mito. Gandhi, invece, nel corso di tutta la sua azione sociale e politica si è sempre sforzato di far capire che ciò che lui ha fatto poteva farlo chiunque altro, che “la verità e la nonviolenza sono antiche come le montagne”. La novità emersa con Gandhi consiste nell’aver saputo trasformare le nonviolenza da fatto personale a fatto collettivo, da scelta di coscienza a strumento politico: con Gandhi la nonviolenza non è più solo un mezzo per salvarsi l’anima, ma diventa un modo per salvare la società. La nonviolenza è sempre esistita, presente in tutte le culture e in tutte le religioni, in oriente e in occidente, nei sacri testi della Bibbia e del Corano, della Bhagavad Gita e del Buddhismo. Ma è con Gandhi che la nonviolenza diventa un’arma di straordinaria potenza per liberare le masse oppresse. Il Mahatma ci ha fatto scoprire che la nonviolenza è insieme un fine ed un mezzo, che per abbracciare e farsi abbracciare dal satyagraha ci vuole fede, pazienza, sacrificio, dedizione, addestramento: “Il satyagrahi si allena giorno per giorno, in ogni istante della propria vita, per diventare capace di soffrire con gioia e apprendere la difficile arte del dono della vita. Egli agisce senza recriminazioni, con distacco, senza aspettarsi il risultato immediato delle proprie azioni e senza rivendicarne il merito. Non si stupisce della violenza che puo' essergli inflitta, non agisce con rabbia e utilizza ogni occasione che gli si presenta per trasformare il male con il bene.”
Gandhi è stato un grande innovatore, è stato l’uomo che ha riscattato il ventesimo secolo che altrimenti sarebbe stato consegnato alla storia come un secolo buio, per gli orrori delle guerre mondiali e per l’olocausto nei campi di sterminio. Gandhi è la preziosa eredità per il nuovo secolo.
La lezione di Gandhi ha suscitato molti proselitismi, in ogni parte del mondo. Dal Sudafrica al Chiapas, dalla Birmania al Tibet, così come in Europa e in America Latina, ovunque vi sono gruppi o popoli che lottano per i loro diritti ispirandosi alla forza attiva del satyagraha.
“Se posso dirlo senza arroganza e con la dovuta umiltà, il mio messaggio e i miei metodi sono validi, nella loro essenza, per il mondo intero; ed è motivo di viva soddisfazione per me sapere che hanno già suscitato mirabile rispondenza nel cuore di un grande e sempre crescente numero di uomini e donne dell’Occidente”.
Oggi infatti, in Europa e negli Stati Uniti, non si può parlare di pacifismo senza fare i conti con la nonviolenza gandhiana. La mobilitazione contro la guerra (intendo contro tutte le guerre, fatte da chiunque per qualsiasi motivo e con qualunque arma) è coerente e vincente solo se fatta con i mezzi della nonviolenza. “La guerra è il più grande crimine contro l’umanità”. Gandhi condanna il ricorso alla guerra, senza appello, e ci indica anche il metodo giusto alternativo: “Si dice: i mezzi in fin dei conti sono mezzi. Io dico: i mezzi in fin dei conti sono tutto”. Dunque la nonviolenza di Gandhi è soprattutto prassi, azione, sperimentazione. Tutta la sua vita è spesa in questa ricerca, tanto da intitolare la sua autobiografia “Storia dei miei esperimenti con la verità”.
Il mondo è solo all’inizio dell’esplorazione delle potenzialità della nonviolenza, la sola via che può salvare l’umanità dal vicolo cieco suicida che ha intrapreso.
Mao Valpiana, Direttore di “Azione nonviolenta”
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Di seguito l'articolo, sempre di Mao Valpiana, edito su Liberazione il 27 gennaio 2008:
Se oggi la nonviolenza di Mohandas Gandhi (1869-1948) ha cittadinanza politica anche in Italia, lo dobbiamo ad Aldo Capitini (1899-1968), filosofo e fondatore del Movimento Nonviolento. Senza il lavoro intellettuale di Capitini, la figura di Gandhi sarebbe probabilmente ancora confinata solo nell’ambito religioso.
Già negli anni trenta l’antifascista Aldo Capitini scopre la dimensione politica di Gandhi e intravede nella non-collaborazione la forza capace di sconfiggere l’oppressione del regime e la via della resistenza nonviolenta all’ormai prossimo conflitto mondiale. Capitini studia pensiero e azione del Mahatma e introduce nel dibattito etico-politico il discorso sui mezzi e fini, concentrandosi soprattutto sul “metodo” per portare avanti la lotta: “fra mezzi e fini vi è la stessa relazione che esiste fra seme e albero”. Durante il regime fascista Capitini diventa un punto di riferimento per molti giovani ma rimane isolato sul piano politico: “Mi decisi al vegetarianesimo nel 1932, quando, nell'opposizione al fascismo, mi convinsi che l'esitazione ad uccidere animali avrebbe fatto risaltare ancora meglio l'importanza del rispetto dell'esistenza umana”. Rovesciando l’antico detto latino “si vis pacem, para bellum” Capitini imposta il suo lavoro culturale sull’ipotesi “se vuoi la pace, prepara la pace” e diventa così il teorico dell’obiezione di coscienza. E’ nel 1948, con la prima obiezione di coscienza antimilitarista di Pietro Pinna, che dal pensiero si passa all’azione. Capitini assume un impegno costante a sostegno degli obiettori, organizzando nel 1950 a Roma il primo convegno italiano sul tema; nel 1952, in occasione del quarto anniversario dell'uccisione di Gandhi, promuove un convegno internazionale per la nonviolenza. Al termine dei lavori costituisce un Centro di coordinamento internazionale per la nonviolenza, il nucleo di persone che avrebbero poi dato vita alla prima Marcia per la pace Perugia-Assisi e quindi al Movimento Nonviolento, nel 1961. E’ sempre Capitini a valorizzare e far conoscere in Italia e all’estero la figura di Danilo Dolci che considera “il Gandhi italiano” (suo il primo digiuno politico, nel 1952, sul letto di un bambino morto di fame in Sicilia). Nell’incessante lavoro di diffusione della nonviolenza gandhiana, Capitini viene invitato a Barbiana da Don Lorenzo Milani, il quale poi citerà Gandhi nella sua famosa lettera ai cappellani militari L’obbedienza non è più una virtù.
Capitini muore nel 1968. Il movimento studentesco e operaio sta preparando una stagione di lotte che affonda le radici ideologiche nel marxismo. La nonviolenza viene lasciata da parte, dimenticata, quando non derisa o considerata merce “borghese”. Solo un drappello di giovani obiettori, cattolici o radicali, tiene vivo il riferimento a Gandhi. Gli altri preferiscono fare la naja come “proletari in divisa” contro l’esercito dei padroni. La battaglia civile per la legge sull’obiezione antimilitarista (che arriverà nel 1972) viene condotta con metodi nonviolenti (marce, digiuni, sit-in) da piccoli gruppi come il Movimento Nonviolento, il Movimento Internazionale per la Riconciliazione e il Partito Radicale. I testi di Gandhi cominciano a trovare cittadinanza soprattutto in ambienti religiosi del dissenso cattolico (Padre Balducci, Dom Franzoni) o valdesi.
Ma è con l’approvazione della legge sull’obiezione che i piccoli e marginali movimenti nonviolenti italiani iniziano a confrontarsi con partiti e istituzioni.
Negli anni ’80 e ‘90 due partiti hanno inserito nei loro statuti fondativi il termine “nonviolenza”: il Partito Radicale e la Federazione dei Verdi, ma l’esito non è stato all’altezza delle aspettative. Il primo, dopo la stagione movimentista, si è trasformato più decisamente in partito e ha assunto persino posizioni favorevoli ad interventi militari ed armati. I secondi hanno assunto posizioni più vicine al pacifismo generico ma dopo dilanianti contrasti interni hanno decisamente assunto la tradizionale forma partito abbandonando la spinta iniziale che veniva dal basso (con l’unica luminosa eccezione di Alexander Langer, vero amico della nonviolenza, che ha saputo fare politica senza mai tradire la sua vocazione francescana). Ora anche esponenti del pensiero comunista guardano alla nonviolenza riconoscendo che non si può più prescindere da un confronto con essa. Se è vero che la nonviolenza non può essere arrogante nei confronti di altre storie o culture a meno di contraddire la sua stessa aspirazione, è anche vero che chi arriva alla nonviolenza dopo aver percorso strade molto diverse, dovrebbe avere un atteggiamento di umiltà e riconoscenza verso chi ha tenuto accesa questa fiammella, spesso in solitudine. Il Movimento Nonviolento non pretende di esaurire in se stesso la proposta della nonviolenza che, come diceva Gandhi, è “antica come le montagne”, ma la via italiana alla nonviolenza non può che passare da questa storia.