La morte di Václav Havel


Andrea Possieri


Una storia di libertà. E Milan Kundera disse di lui: “La sua vita somiglia a un’opera d’arte”.


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La morte di Václav Havel

Nel dicembre del 1989, in un’intervista rilasciata a Le Nouvel Observateur, Milan Kundera non ebbe esitazioni nel rispondere al giornalista che gli chiedeva un commento sul nuovo leader che di lì a poco avrebbe assunto la presidenza della Repubblica cecoslovacca. La vita di Havel, spiegò lo scrittore ceco per anni esule in Francia, «è interamente costruita su un solo grande tema; non ha il carattere di un vagabondaggio, non conosce cambiamenti di orientamento. È una sola gradazione continua e dà l’impressione di una perfetta unità compositiva». Insomma, la vita di Václav Havel assomiglia a «un’opera d’arte».
Probabilmente, non esiste una definizione più appassionata della biografia umana e politica dell’ultimo presidente della Cecoslovacchia e del primo presidente della Repubblica Ceca — morto domenica 18 dicembre all’età di 75 anni — di questa rilasciata dall’autore de L’insostenibile leggerezza dell’essere. Quelle parole, però, non erano soltanto una dichiarazione d’amore nei confronti del drammaturgo che nel gennaio del 1977, insieme a Jan Patočka, Zdeněk Mlynář, Jiří Hájek e Pavel Kohout, aveva redatto Charta 77, uno dei più noti documenti del dissenso nei regimi comunisti che gli aveva fatto scontare quasi cinque anni di prigione. Quelle parole indicavano qualcosa di molto più profondo e di politicamente rilevantissimo.
Havel, infatti, rimaneva un intellettuale anche nel momento in cui assumeva la più alta carica dello Stato. Pur tuttavia era un’artista intimamente legato agli aspetti più profondi della vita del proprio Paese, radicato nella specificità della tradizione popolare, e che proprio per questo poteva essere considerato come un «eroe moderno».
Nelle parole di Kundera, Havel era «il primo rappresentante morale» del suo Paese. Era l’intellettuale che si faceva politico per forza e che si assumeva la responsabilità politica e spirituale di costruire un regime di libertà dopo aver contribuito ad abbattere un regime dittatoriale che per decenni aveva negato quella libertà. Quello stesso regime a cui aveva avuto il coraggio di scrivere una lunghissima lettera, l’8 aprile del 1975.
In quella bellissima missiva indirizzata a Gustáv Husák — il segretario generale del Comitato Centrale del Partito comunista cecoslovacco che era subentrato a Dubcek durante la tragica Primavera di Praga del 1968 — Havel condannava «l’onnipresente e onnipotente polizia di Stato», la «castrazione» intellettuale, «il conformismo esteriore» del regime e il raggiungimento dell’ordine sociale «a costo della crisi spirituale e morale della società». Un costo altissimo che prima o poi, secondo il drammaturgo, avrebbe portato alla caduta del regime comunista. Un regime che sarebbe caduto «vittima del suo stesso principio mortifero» perché «la vita la si può violentare a lungo e a fondo, la si può schiacciare e mortificare, è però impossibile fermarla definitivamente».
Una vita pubblica che in Cecoslovacchia ebbe un nuovo inizio tra il 17 novembre e il 29 dicembre del 1989 quando la cosiddetta «rivoluzione di velluto» — nei giornali dell’epoca qualcuno la definì anche una «rivoluzione delicata» — rovesciò senza spargimento di sangue il regime comunista. Un nuovo inizio dove anche i segni e i simboli sembrarono riprendersi la rivincita su quella crisi morale e spirituale che aveva denunciato il drammaturgo quattordici anni prima. Havel, infatti, giurò fedeltà alla nuova repubblica nella sala Vladislao del castello di Praga. Nella stessa sala dove erano stati incoronati per secoli gli antichi re boemi, dove nel 1935 era nata la prima repubblica e dove il regime comunista aveva celebrato la sua ruvida grandezza.
Tuttavia, la cerimonia non si esaurì nel castello boemo ma pro- seguì nella cattedrale con la messa del Te Deum celebrata in occasione della nomina del presidente da parte del primate ceco František Tomášek. Non succedeva una cosa del genere dal 1948. «Ci troviamo qui nella cattedrale di San Vito — disse il cardinale — madre di tutte le nostre chiese. Come sempre durante i secoli passati, nei momenti di gioia siamo riuniti per ringraziare Dio della grande speranza che ci ha dato in questi giorni».
Havel attraversò la Porta d’Oro ed entrò in chiesa accompagnato dalla moglie Olga, la «brontolona» come la definisce nelle sue memorie, che aveva sposato nel 1964. Prima di giungere alla cappella di San Venceslao dove lo attendeva il vescovo Jan Lebeda, Havel si inginocchiò facendosi il segno della croce davanti alla tomba dei re boemi e di fronte alle reliquie di sant’Agnese che era stata recentemente canonizzata da Giovanni Paolo II. Poi sotto le splendide ed enormi navate gotiche risuonarono le note del Te Deum laudamus di Antonin D vořák,    eseguito    dalla Filarmonica di Praga.
Quella cerimonia, dunque, non fu solamente la riscoperta di un’antica liturgia che univa politica e tradizione, cultura e religione ma rappresentò l’inizio di una nuova storia. Una storia di libertà di cui Václav Havel era l’emblema più importante.

Fonte: L'Osservatore Romano

19-20 dicembre 2011

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