La moratoria dei negoziati
Michele Giorgio, Il Manifesto
Fine del congelamento della costruzione di colonie nei Territori occupati. I settler esultano mentre i colloqui mediati dagli Usa vanno verso l’inevitabile fallimento.
Le guardie private all’ingresso della colonia ebraica di Adam non fanno sconti. «Sorry, non si entra senza permesso scritto». Nessuno dei giornalisti e fotografi presenti sapeva di dover presentare un permesso per poter entrare nell’insediamento a una decina di chilometri da Gerusalemme e ad est del muro costruito da Israele in Cisgiordania. È chiaro che i guardiani hanno ricevuto l’ordine di non far passare i giornalisti dopo il clamore mediatico provocato dai festeggiamenti che i coloni hanno tenuto a Revavà nel giorno della scadenza della (presunta) moratoria sulle nuove costruzioni negli insediamenti. Celebrazioni grandiose.
Danze, musica, discorsi. Migliaia di persone, tra le quali figuravano dozzine di cristiani sionisti giunti da diverse parti del mondo per partecipare alla battaglia contro la nascita di uno stato palestinese nei Territori occupati nel 1967, sebbene minuscolo e senza sovranità. L’altro giorno Avraham Binyamin, portavoce di Yizhar, la roccaforte dei coloni israeliani più fanatici, ha commentato la buona novella della fine della moratoria avvertendo che «la Bibbia rimane l’unico trattato internazionale valido in Medio Oriente».
Incassato il secco «no» delle guardie private di Adam non resta che provare a scorgere dall’esterno i segni della ripresa dei lavori in questa colonia, annunciati domenica sera. Non si riesce a vedere granché: un paio di autocarri carichi di detriti che lasciano l’insediamento e il passaggio di una jeep. In compenso si sente bene il fragore provocato dalle ruspe, evidentemente impegnate a sbancare terreni. Presto in questa colonia, che nel 2009 ha assorbito gli irriducibili dell’avamposto di Migron, sorgeranno 30 nuove abitazioni. A qualche centinaio di metri di distanza sono fermi due palestinesi, in attesa di un taxi collettivo. Solo uno, Farid, ha voglia di rispondere alle nostre domande. «La politica non mi interessa più» dice «ora penso solo a portare a casa quanto serve per sfamare la mia famiglia».
È un capolavoro politico e diplomatico che ha realizzato il premier israeliano Netanyahu. Non prolungando la «moratoria» ha tenuto fede alle sue posizioni ideologiche, di fatto molto vicine a quelle degli ultranazionalisti che dominano il suo governo, nonostante si cerchi da più parti di descrivere Netanyahu come un «premier moderato assediato dagli estremisti». Allo stesso tempo ha fatto felice Barack Obama promettendo una colonizzazine con il freno a mano tirato – si dice più o meno 2-3 mila case all’anno –, concentrata nei blocchi di colonie situati nelle porzioni di Cisgiordania che Israele intende annettersi in ogni caso, forte della lettera di garanzie ricevuta nel 2004 dall’alleato di ferro George Bush.
«Cinque, quattro, tre, due uno…Evviva! La moratoria è scaduta», hanno scandito felici domenica a Revavà i coloni e i loro leader, mentre la deputata del Likud Tzipi Hotoveli ha ricordato a Netanyahu che il partito è andato al potere per impedire la nascita di uno stato palestinese. E ne hanno motivi per festeggiare i «Settler». La fine della «moratoria» consente di costruire subito negli insediamenti e i media israeliani dicono che i lavori riprenderanno immediatamente in almeno otto insediamenti, oltre ad Adam, incluso Kiryat Arba, vicino Hebron (la zona dove domenica notte una colona incinta è stata ferita da colpi sparati da palestinesi). Ma bulldozer e betoniere già ieri erano in funzione per completare il «quartiere» di Kiriat Natafim, nell’insediamento di Ariel (Nablus), così come Shaarei Tikva, Kedumim, Kochav Hashadar, Yatir, Karmei Tzur e a Oranit. Sembra essere ripresa anche la «colonizzazione selvaggia» dei cosiddetti «ragazzi delle colline» visto che testimoni hanno scorto altri quattro caravan dei coloni vicino al villaggio palestinese di Qusra (Nablus).
Affermare, come si fa da più parti, che sia ripresa la colonizzazione è però fuorviante perché in questi dieci mesi di “moratoria” applicata dal governo israeliano – che il segretario di stato Hillary Clinton arrivò a descrivere come “una decisione senza precedenti” – le costruzioni non si sono fermate neanche per un giorno. Il congelamento ha interessato solo le nuove costruzioni e non è stato riferito ai progetti già approvati né a quelli riguardanti le infrastrutture, né agli insediamenti colonici a Gerusalemme Est. Gli stessi dati governativi dicono che a metà del 2009, prima della “moratoria”, 2.790 abitazioni erano in fase avanzata di costruzione. Nei primi quattro mesi del 2010, i lavori in corso nelle colonie hanno riguardato 2.517 abitazioni. Secondo il centro palestinese Land and Research, i coloni hanno ottenuto altri 590 ettari di terra durante la “sospensione”. Fanno perciò sorridere le dichiarazioni del portavoce del Dipartimento di stato americano P.J. Crowley. “La nostra posizione non è cambiata”, ha detto volendo ribadire che l’amministrazione Obama vuole che Netanyahu confermi il congelamento delle nuove costruzioni. Gli sviluppi sul terreno dicono chiaramente quanto il premier israeliano tenga conto delle pressioni americane.
In realtà le uniche pressioni che Washington sta esercitando sono sull’anello debole, Abu Mazen e la sua Anp, per salvare il negoziato diretto ripreso il 2 settembre e sul quale Obama ha scommesso buona parte del suo prestigio in Medio Oriente. Così il presidente dell’Anp, come prevedibile, è di nuovo sul punto di cedere per affidarsi, senza alcuna garanzia, all’assicurazione americana che i palestinesi avranno un loro Stato indipendente. D’altronde se Abu Mazen ha accettato di andare ad una trattativa non fondata sulle risoluzioni internazionali e senza avere ottenuto in anticipo lo stop totale della colonizzazione, come può ora aspettarsi che Netanyahu estenda la “moratoria”? La sua sconfitta diplomatica è totale. Per questo sta cercando una via d’uscita “onorevole” che gli consenta di negoziare mentre Israele espande le sue colonie. “Vogliamo continuare a negoziare, ma questo implica che il governo israeliano deve prolungare il congelamento”, ha spiegato il portavoce dell’Anp Nabil Abu Rudeinah, ma è noto che a New York il capo negoziatore dell’Anp, Saeb Erekat, sta cercando con i funzionari americani “una formula che permetta di proseguire le trattative tra le parti”. Si dice che Israele e Anp abbiano concordato di concedersi un’ulteriore settimana di contatti ma la “soluzione” uscirà dalla riunione della Lega Araba il 4 ottobre. Prima di quella data i palestinesi non si pronunceranno sul proseguimento dei negoziati con Israele, ha fatto sapere Abu Mazen ben sapendo che i “fratelli” arabi gli forniranno l’ombrello di cui necessita per non abbandonare le trattative.
Nel frattempo l’opposizione ad Abu Mazen si allarga. Khalida Jarrar, deputata del fronte popolare per la liberazione della Palestina, ha denunciato il ritorno al tavolo delle trattative come una “ritrattazione” della decisione presa dal Consiglio centrale dell’Olp di non negoziare mentre le colonie si espandono. Mustafa Barghuti di “Mubadara” ha denunciato le trattative “una copertura che consente l’annessione israeliana, la consacrazione del regime di apartheid e la liquidazione dei diritti dei palestinesi”. Da Gaza Hamas ricorda ad Abu Mazen che non può prendere decisioni a nome di tutto un popolo, visto il consenso limitato di cui gode nei Territori occupati e nei campi profughi palestinesi sparsi nei paesi arabi.
di Michele Giorgio, inviato ad Adam (colonia ebraica)
Fonte: Il Manifesto
28 settembre 2010