«La mia fuga dall’inferno dell’Eritrea»


Paolo Lambruschi - Avvenire


Non vedeva suo fratello dal 2005, lo ha riconosciuto attraverso la foto scattata dalla Scientifica dopo il naufragio del 3 ottobre.


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Fotonaufragi

Non vedeva suo fratello dal 2005, lo ha riconosciuto attraverso la foto scattata dalla Scientifica dopo il naufragio del 3 ottobre. Nell’hangar di Lampedusa Asku ha pianto e pregato a lungo sulla bara di Bimnet, 36 anni, professore in divisa nello stato-caserma eritreo, che a febbraio ha disertato ed è scappato in Sudan con i suoi allievi-militari che sognavano l’Europa per sfuggire alla coscrizione forzata a vita. Sapevano i rischi che correvano, ne fuggono 3.000 al mese secondo l’Acnur verso l’Etiopia o il Sudan. E molti, sempre di più, arrivano profughi in Italia, dove una polemica politica insensata e persino disumana riesce a fare peggio di una cieca e inadeguata normativa li bolla come clandestini.

Sono le generazioni perdute dell’Eritrea, una ferita che non si rimargina. Perdute in Europa e in America. La terra promessa per Bimnet si chiamava Wiesbaden, in Germania, dove Asku, oggi 53enne, vive dal 1980 con la famiglia e dove c’è già anche un altro fratello. È il primo parente delle vittime dell’ecatombe giunto sull’isola per il riconoscimento. Appresa la notizia del naufragio, ha avuto conferma che Bimnet si trovava sul peschereccio affondato da uno degli allievi fermo a Tripoli perché non aveva i 1.600 dollari per la traversata. «Quando Bimnet viveva nel quartiere eritreo di Khartoum – racconta Asku – ci sentivamo spesso. Ho fatto domanda di ricongiungimento in Germania per farlo entrare legalmente, ma l’attesa è diventata troppo lunga. Gli ho mandato parecchio denaro, ma i suoi allievi e i suoi amici avevano fretta di partire per la Libia e l’hanno convinto a muoversi all’inizio di agosto. Era scritto in Cielo che dovesse finire così».

Siamo in un bar in centro a Lampedusa, dove Asku ha dato appuntamento a uno degli allievi del fratello scampato al naufragio. Vuole ricostruire le ultime ore di vita di Bimnet dalla partenza in Libia alla morte. I trafficanti avevano sequestrato ai passeggeri i cellulari, e il black-out è stato totale. Si aggrega Adel, 39 anni, eritreo di nazionalità svedese che nel naufragio ha perso il fratello Adam, 24enne, un gigante asmarino – arruolato a forza ancora minorenne nelle forze speciali – che aveva disertato due anni fa.

«Ha vissuto ad Addis Abeba – conferma Adel – poi in marzo è arrivato a Khartoum per tentare la strada europea via mare. In Svezia non sono possibili infatti i ricongiungimenti». Adel è arrivato ieri a Lampedusa, sapeva dell’imbarco del fratello sul peschereccio e della sua morte, ma non lo ha ancora riconosciuto dalle foto mortuarie e ora attende i nuovi ritrovamenti per poter dire qualcosa ai genitori in patria.

Alex (nome di fantasia) 20 anni, era amico di entrambe le vittime, ora fratelli nella morte. Ha condiviso la vita a Khartoum, nelle galere tripoline e infine sul ponte del peschereccio, vicino a uno degli scafisti. È un cristiano pentecostale, religione non riconosciuta dallo Stato eritreo. Suo padre è stato incarcerato per la sua fede, sua madre e due fratellini sono rimasti a Khartoum, la sorella maggiore è esule a Londra. «Siamo stati in prigione a Tripoli per un mese – racconta – poi siamo riusciti a evadere. Bimnet ha pagato 2.000 dollari le guardie per le chiavi, ma nella fuga si è azzoppato e non è mai guarito».

Contattati i trafficanti, sono stati rinchiusi per un altro mese in un capannone vicino a Tripoli, Poi la notte di una settimana fa in un’ottantina sono saliti su un camion coperti da teloni e a Misurata sono stati ammassati sui gommoni, a gruppi di 130 alla volta.

«Così – prosegue il giovane – ci hanno portato al peschereccio fermo al largo. Eravamo 520, ma il capitano più giovane, che poi è annegato, ne ha fatti tornare a riva 20 perché eravamo troppi. La destinazione era la costa siciliana, e ci aspettavamo 60 ore di navigazione. Dopo 26 ore abbiamo visto delle luci, il capitano ha detto che era Lampedusa e ci fermavamo perché imbarcavamo acqua. Eravamo ammassati sul ponte. A bordo ho visto salire almeno 80 donne (se ne sono salvate 4, ndr) di cui 4 incinte e 16 bambini. Sono scese nella stiva, credo abbiano pagato di meno».

Tra le persone imbarcate, secondo il ragazzo, sette etiopi e due sudanesi. Conferma che due navi li hanno avvicinati e hanno proseguito senza aiutarli. Conferma che la carretta era ferma a 600 metri dalla riva, tra Cala Croce e Cala Madonna, non lontana dal porto. Conferma che l’incendio è stato provocato da una coperta bruciata per attirare l’attenzione. Nel fuggi fuggi il natante si è rovesciato. Alex si è buttato subito, ma Bimnet, azzoppato, ha perso attimi preziosi ed è affogato. Adam il gigante non sapeva nuotare ed è ancora a 47 metri sotto il mare.

Chiedo se il naufragio spaventerà gli eritrei rimasti in Libia. Asku sorride amaro. «Niente li può fermare». Don Mosè Zerai, cappellano cattolico degli eritrei in Svizzera, al telefono denuncia di essere stato contattato da 50 donne imprigionate con 36 bambini tra i 2 e i 13 anni in un centro di detenzione libico a Garaboulì. Quotidianamente vengono stuprate dalle guardie libiche. In Libia il problema dei profughi si risolve così. Meglio la morte in mare che questo inferno, hanno detto le donne disperate al prete. No, niente li può fermare.

Fonte: www.avvenire.it
8 ottobre 2013

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