La macchinetta rossa e la strage di bambini
Valerio Cataldi
I bambini sono e restano bambini a Manchester e a ridosso delle coste libiche. Muoiono se si ritrovano accanto ad un ordigno e alla follia integralista di un adolescente o se si spaventano di fronte alle raffiche di mitra esplose da militari della guardia costiera libica e finiscono in acqua come ha documentato la Rai in queste ore.
Nell’ufficio corpi di reato della questura di Palermo c’era una macchinetta rossa dentro un sacchetto di plastica sigillato. Aveva la sabbia ancora incrostata. L’hanno tirata fuori dalle tasche di un bambino eritreo, annegato assieme ad altri trecentosessantasette il 3 ottobre 2013.
Quando abbiamo aperto quella busta assieme a Gery Ferrara il magistrato che più di ogni altro è impegnato nella caccia ai trafficanti di uomini, abbiamo notato l’antenna un po’ piegata. Con una leggera pressione abbiamo cercato di rimetterla nella giusta posizione, ma era troppo fragile e si è spezzata. in quel momento ci siamo accorti che senza renderci conto abbiamo avuto la stessa cura che avremmo usato con il giocattolo di un nostro figlio.
Le immagini di quegli oggetti trovati nelle tasche dei bambini annegati, le fotografie colorate che li ritraggono sorridenti assieme ai loro genitori, riempiono spesso le pagine di giornali nei giorni della commozione a ridosso dei naufragi in cui ogni volta si sente ripetere “mai più”, sempre che i corpi si riesca a recuperarli.
Dal 2013 sul fondo del mare di bambini ce ne sono finiti altre migliaia. Annegati ancora oggi, forse anche in questo preciso momento, mentre da noi si continua a discutere su come accusare le Ong di collusione con i trafficanti, gli unici che insieme alla guardia costiera italiana sono davvero impegnati a salvarli.
Quelle stesse immagini le ho riviste sui giornali di questi giorni a raccontare altri ragazzini morti in circostanze che per nessun motivo dovrebbero essere considerate pericolose. Andare ad un concerto non può essere considerata una attività a rischio. Eppure a Manchester sono morti mentre la musica e l’eccitazione per l’evento al quale si assisteva ancora erano nell’aria. Le immagini rimbalzate sul web hanno mostrato corpi e strazio in un contesto che non è mai il posto sbagliato, ne è mai il momento sbagliato. Sui giornali ho trovato le storie di quei ragazzini, i selfie, i sorrisi presi dai social e una commozione collettiva che giustamente unisce in una condanna senza esitazione.
Quando sono i bambini a morire non c’è possibilità di appello, per nessuno. Neanche per noi stessi.
I bambini sono e restano bambini a Manchester e a ridosso delle coste libiche. Muoiono se si ritrovano accanto ad un ordigno e alla follia integralista di un adolescente o se si spaventano di fronte alle raffiche di mitra esplose da militari della guardia costiera libica e finiscono in acqua come ha documentato la Rai in queste ore. Muoiono sotto le bombe di guerre che nessuno cerca di fermare o muoiono di fame accanto alle piste del deserto dove passano i convogli con le ricchezze che l’Europa continua a considerare sua proprietà affermando, senza dirlo, che l’epoca coloniale non è affatto finita.
Quale è la differenza?
La sola differenza la facciamo noi. La fa la reazione che abbiamo di fronte ad un bambino che annega nel mediterraneo perché non ha un visto sul passaporto o di fronte ad un ragazzino che muore dilaniato da una bomba mentre ascolta la sua musica preferita. Siamo noi, il valore che diamo alla vita. E i compromessi che siamo disposti ad accettare per avere la sensazione di essere al sicuro.
Articolo21
25 maggio 2017