La lezione del conflitto libico
Emanuele Giordana - Lettera22
A Bruxelles ieri la dissonanza di suoni e strategie è stata ancora più potente. Tutti uniti ma come e fino a dove? Cosa insegna l’ultima guerra nel Mediterraneo.
La corsa della diplomazia internazionale, da Doha a Bruxelles passando per il Cairo, non solo sembra senza fiato ma appare soprattutto col fiato corto. Quel che la campagna di Libia mette infatti senza pietà sotto gli occhi di tutti è il fatto che la comunità internazionale parla con una coralità di voci che, a dispetto di quanto vorrebbe Hillay Clinton, mostra più che pluralismo di opinioni una dissonante strategia del dopo, a distanza ormai di quasi un mese dalla risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza sulla protezione dei civili libici. Ma andiamo con ordine.
La riunione dell'altro ieri di Doha ha fissato il paletto che invita la comunità internazionale a sostenere i “ribelli” del comitato di transizione. Ma come? Niente armi dicono alcuni, aiuti contro petrolio dicono altri, sostegno umanitario aggiungono altri ancora, più raid e bombardamenti dicono all'unisono Francia e Gran Bretagna (che adesso l'Italia si sia invece decisamente allineata su posizioni negoziali e su un rifiuto dei bombardamenti è una scelta che, ancorché tardiva, non può che farci piacere).
A Bruxelles ieri la dissonanza di suoni e strategie è stata ancora più patente. Tutti uniti ma come e fino a dove? Al Cairo, sempre ieri, il tentativo di mettere assieme Oua, Lega araba e Onu è stata certo una scelta intelligente ma l'insieme è apparso come se diplomazia e negoziato da una parte (al Cairo) e guerra e bombe dall'altro (a Bruxelles) fossero i commensali di uno stesso ristorante in sale rigidamente separate. Fumatori (a Bruxelles) non fumatori (al Cairo).
Purtroppo tutto quanto era prevedibile si sta realizzando: una guerra che si alimenta da sola e offre il proscenio alle muscolarità di alcuni paesi, bombardamenti mirati che fanno inevitabili effetti collaterali, una strada diplomatica tortuosa e assi poco univoca, una situazione di stallo prolungata e puntellata di raid. Se da tutto ciò traessimo una lezione, benché il prezzo pagato sia elevatissimo in termini di vite umane (e forse lo sarebbe stato altrettanto lasciando solo a Gheddafi il ruolo di protagonista) potremmo sperare in nuove regole per affrontare i conflitti di domani. Ma all'orizzonte si profila ben poco. La guerra di Libia sembra anzi dimostrare che le coalizioni dei volenterosi sono più che altro alleanze di singoli, occasioni perfide per dimostrarsi il primo della classe, il paese guida o quello che trarrà qualche vantaggio dalla futura vittoria. Avremmo bisogno invece di ben altro.
Di un dibattito serrato sui mezzi anche militari che la comunità internazionale si deve dare, della ricerca di strumenti preventivi, di un esercito dell'Onu che risponda a un comando internazionale e non ai voleri di qualche Stato o di un'alleanza regionale. Il paradosso è che questa idea, che ebbe qualche fortuna dopo la seconda guerra mondiale e che per anni è stata al centro del dibattito internazionale, sembra morta e sepolta. Ma dopo l'insuccesso dell'Afghanistan , i fatti di questi giorni dimostrano inequivocabilmente che la Nato si sta avviando verso un'ennesima sconfitta se non altro allineandosi al motivo per cui fu bocciato l'esercito dell'Onu, ossia l'incapacità di riflettere il volere di tutti e non la ragione del più forte (ieri gli Stati uniti, oggi Gran Bretagna e Francia). La Nato continua a rivelarsi non solo uno strumento inefficace sul piano della risoluzione dei conflitti, ma un mezzo obsoleto che non rispecchia un mondo in trasformazione dove nuovi soggetti si affacciano e alleanze più allargate (l'Onu è quella su cui dovremmo tornare a puntare le nostre carte) si rendono necessarie.
Non saremo tra quelli che come la signora Le Pen chiedono l'uscita dalla Nato (o dall'euro), perché non è questo il punto. Non è un neo isolazionismo ciò di cui abbiamo bisogno. Il mondo ha necessità di strumenti condivisi a largo raggio non di alleanze muscolari a raggio ristretto. Forse siamo ancora in tempo a metterci mano.
Fonte: Lettera22, Terra
15 aprile 2011