La gente di Davos che discute con se stessa


Francesco Guerrera


L’eco delle bombe di Mosca e delle proteste del Cairo non si è quasi sentita a Davos, annegati nel torrente di parole e buone intenzioni che è straripato nella cittadina svizzera.


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La gente di Davos che discute con se stessa

Stavo discutendo d’Italia con uno dei grandi della finanza mondiale (voleva sapere le ultime su Berlusconi…) nel cupo centro conferenze di Davos quando un altro gigante di Wall Street si è intromesso. «Me lo dai un passaggio stasera?», ha detto al mio interlocutore. «Non ci dovrebbero essere problemi. Partiamo verso le cinque. Ho un ottimo pilota». «Pilota? Vuoi dire autista» ho chiesto irritato dall’imprecisione linguistica del finanziere. Voleva proprio dire pilota di jet privato: avrebbe offerto un «passaggio» al suo rivale per un comodo Zurigo-New York tra sedili in pelle, cibo da gourmet e check-in senza fila.

Solo a Davos. Solo al World Economic Forum un giornalista può assistere a scene di questo tipo – senza guardie del corpo o portaborse – mentre prende il tè con un banchiere che l’anno scorso ha guadagnato 13 milioni di dollari (e mi ha fatto pure pagare il conto). Ogni anno, questo paesone di montagna si trasforma nell’ombelico del mondo. Capi di Stato e ministri delle Finanze, capitani di industria e personalità dello spettacolo (Bono e i suoi occhiali c’erano, De Niro ha cancellato all’ultimo minuto) convergono sulle Alpi svizzere per passare una settimana a discutere sui problemi dell’umanità, fare business e sentirsi parte dell’élite internazionale.

La stampa assiste e amplifica, a volte pubblico, a volte co-protagonista ma sempre complice nel patto faustiano di dare credibilità a un summit che ha poca sostanza in cambio di interviste preziose e incontri a porte chiuse con la classe dirigente del globo. Ogni anno il Forum si dà un titolo magniloquente ed eccessivo, ma quello di quest’anno si è rivelato più maldestro del solito. Tentare di parlare di «norme da condividere per una nuova realtà» è difficile quando 35 persone muoiono per un’esplosione in Russia e la Tunisia e l’Egitto sono sull’orlo della guerra civile.

Ma l’eco delle bombe di Mosca e delle proteste del Cairo non si è quasi sentita a Davos, annegati nel torrente di parole e buone intenzioni che è straripato nella cittadina svizzera. Certo, c’è stato il discorso di Dmitry Medvedev, il Presidente russo che è venuto nonostante l’attentato. Corrucciato e brusco, ha sfoderato un iPad e letto un discorso monotono che si può riassumere nella quasi citazione – involontaria credo – di un vecchio film con Barbra Streisand e Robert Redford.

«Today we are the way we are». Oggi la Russia è quella che è, ovvero: care Europa e America, smettetela di criticare la nostra «democrazia», i diritti umani e il modo in cui trattiamo le società straniere e ricordatevi del petrolio di cui avete tanto bisogno. Ma di Egitto e Tunisia non si è parlato quasi per nulla. Anzi, mi sono trovato ad assistere a una discussione su come l’Egitto sia un’ottima destinazione per gli investitori stranieri – Ionesco sarebbe stato fiero. Molti dei ricordi di Davos 2011 sono un collage di immagini surreali.

L’esponente di punta del Partito comunista cinese che si lamenta d’inflazione e di prezzi al rialzo per beni di consumo mentre si mangia il caviale e il sushi in mezzo alle montagne. I grandi del pianeta che si muovono in gruppi di elicotteri, tipo scena iniziale di «Apocalypse Now», per poi parlare di come aiutare i poveri e curare la poliomielite. I cortei di Mercedes nere con tubi di scappamento fiammanti che intasano le stradine del paese con dentro politici e capi di azienda che hanno firmato la «promessa» per una «Davos più verde».

Per capire il Forum bisogna uscire dalla bolla del centro conferenze e inoltrarsi nei sentieri che portano agli alberghi e chalet dove i grandi della finanza e della politica tengono banco (il direttore del Belvedere, il migliore albergo di Davos, mi ha detto che guadagna metà degli utili annuali durante l’evento). Quando intervisti il capo del Crédit Suisse in un negozio di mobili adibito a quartier generale, quando ti imbatti in George Soros, uno degli uomini più ricchi del pianeta, che sta per scivolare sulle scale viscide di un hotel, e quando Michael Dell, il miliardario fondatore della società di computer, ti tocca sulla spalla e incomincia a lamentarsi che la fila per passare il metal detector è lenta perché Tony Blair non si muove, incominci a capire il vero perché di Davos.

Durante il Wef, questa cittadina senza grande fascino si trasforma nel villaggio globale immaginato da Marshall McLuhan: ogni vip è qui perché gli altri sono qui, in un circolo virtuoso che permette a tutti loro di comunicare in maniera facile ed efficiente. Il paradosso è evidente: nell’era di Internet e del Blackberry, il faccia-a-faccia vince ancora su Facebook. Il re di Wall Street Jamie Dimon, il capo della JP Morgan Chase, sostiene che a Davos riesce a vedere decine di clienti della sua banca in tre giorni – una retata che sarebbe impossibile in condizioni normali.

Quest’anno, Mr. Dimon ha trovato anche il tempo per un confronto irato con Nicolas Sarkozy, alzandosi in mezzo alla platea per dire al Presidente francese di smetterla di attaccare i banchieri come se fossero tutti uguali. Sarkozy ha risposto per le rime, creando un siparietto tipicamente davosiano. Dimon non è stato l’unico banchiere a rialzare la cresta al Davos 2011. Se c’è stato un filo conduttore quest’anno, è stato che la finanza mondiale ha smesso di sentirsi in colpa per aver causato la crisi ed è di nuovo all’offensiva.

Quasi seguendo un copione, i padroni di Wall Street e della City che ho visto qui si sono tutti indignati per l’onda di regole che sta per sommergerli e che potrebbe mettere a rischio i loro utili, per non parlare delle buste paga. «Quello che è troppo è troppo» ha intonato il capo di una grande banca inglese, accusando le autorità di settore di volere distruggere l’industria con nuove restrizioni e cavilli. Certo i banchieri non sembravano troppo preoccupati per il futuro quando brindavano con champagne alle soirée societarie che riempiono le notti del Forum.

«Davos man» – il rappresentante medio dell’élite delle Alpi svizzere – è sempre in movimento. Venerdì ho iniziato dal party di JP Morgan, nel museo della cultura che era stato svuotato per lasciare spazio a un quartetto jazz; mi sono poi diretto da Citigroup, che aveva affittato un bel salone per festeggiare il fatto che ha finalmente restituito miliardi di dollari ai contribuenti americani.

E ho perfino trovato tempo per recarmi nella Stube di Deutsche Bank e finire il tutto con la festa di Google – l’evento più gettonato del Forum, che però sembrava più Rimini anni 1980 che la Silicon Valley del futuro. Ma alla fine delle serate, la destinazione è unica, anche se il motivo per la scelta è incomprensibile – un piano bar modestissimo in un hotel del centro che ha visto giorni migliori. Erano tutti lì: banchieri e sindacalisti, burocrati e giornalisti – ad ascoltare versioni cover di Robbie Williams e degli Eagles e a raccontarsi i loro trascorsi. Un’élite globale che parla solo con se stessa.

Fonte: www.lastampa.it
30 Gennaio 2011

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