La congiura del silenzio sulle vittime afghane


Emanuele Giordana - Lettera22


L’Afghanistan scompare dalle cronache ma si continua a morire.


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La freddezza dei numeri, primi o ultimi che siano, difficilmente riesce a restituire il dramma della morte. Così poco lo fa che il capitolo delle “vittime civili”, coloro che non portano una divisa, è stato scritto con la minor pubblicità possibile. E il clamore con cui diamo rilievo alla morte di un militare è tanto esteso quanto lo è il silenzio che riguarda uomini, donne e bambini senza nome.

Ogni anno, la missione dell'Onu in Afghanistan ( Unama) tiene il rendiconto di quel silenzio che, da qualche tempo a questa parte, viene per lo più ignorato dai giornali, molto attenti invece, per fare un esempio, alla vittima americana numero 2.000, il cui sacrifico è del 1 ottobre scorso. La missione Onu ha calcolato che nel 2011 (il dossier è di febbraio) i morti civili in Afghanistan sono saliti da 2790 nel 2010 a 3021 nell'anno seguente. Nel 2009 erano 2412. Un trend in ascesa. Se con quel rapporto ci si vuole consolare, si può estrapolare il fatto che la maggior parte delle vittime si deve alla guerriglia e in particolare ai famigerati Ied, esplosivi più o meno rudimentali messi sul ciglio della strada e responsabili di un morto su tre (il 32% del totale). Ma la consolazione si attenua se si constata che sono aumentati anche i morti nei raid aerei che invece erano diminuiti grazie a una più attenta politica del generale Mc Chrystal, poi sostituito da David Petraeus (e adesso dal generale John Allen): nel 2011, le vittime dei raid aerei, per forza di cose indiscriminati (e che purtroppo adesso sono condotti anche dall'aviazione italiana), sono state 187, con un aumento del 9% rispetto all'anno prima. Un rapporto annuale sulla protezione dei civili (Annual Report on Protection of Civilians in Armed Conflict, sempre di febbraio) sostiene che solo dal 2007 al 2011 sono morti 11.864 civili. La stima attribuisce nel 2011 a «elementi anti governativi» il 77% di quelle morti (più 14%). 410 quelli in capo alle forze filogovernative (14%, con una decrescita del 4%). Altri 279 civili (9%) restano difficili da attribuire. Dato che lascia perplessi.

Per sistemare la coscienza in quelle che il generale britannico Rupert Smith ha definito “guerre tra la gente” (The Utility of Force: The Art of War in the Modern World ) in conflitti in cui, dice il generale, si vince la battaglia ma si perde la guerra, si è studiato un sistema di compensazione molto variabile. Su quello applicato dall'esercito italiano, un reportage sul manifesto di oggi dà qualche utile indicazione. Valerio Pellizzari nel suo “In battaglia quando l'uva è matura” (Laterza 2012) ha cercato di capire come pagano gli altri: i tedeschi ad esempio, compensarono con 5mila dollari a famiglia la strage del 2009 a Kunduz quando avevano richiesto l'appoggio aereo Nato per colpire la guerriglia. Errore fatale che uccise oltre 140 persone e scatenò una serie di dimissioni eccellenti, tra cui quella del titolare della Difesa. Gli inglesi applicano criteri variabili: da 4500 dollari a vittima in alcune situazioni a 9mila a famiglia. Gli americani, in alcuni casi (come la terribile strage del 2012 attribuita alla “follia” di un sergente di stanza a Kandahar) sono arrivati a 50mila dollari per morto. Ma in quel frangente il clamore era stato enorme. In Iraq, ad esempio, le vittime civili del 2003 furono compensate con 2.500 dollari. Mediamente, scrive ancora Pellizzari, «un morto afgano consente ai famigliari di ottenere 3mila dollari», un cifra teorica però: molto spesso viene pagata in “kit”, «pacchi di vario genere che possono contenere…ferri da stiro elettrici anche se nei villaggi non arriva la corrente». E persino….«pannelli solari». Anche la green economy può dare una mano.

Fonte: Lettera 22, Great Game
31 ottobre 2012

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