La Borsa o la vita
Mario Pianta
Mille e venti milioni di persone contro quota diecimila. Le prime soffrono la fame, il secondo è il livello raggiunto ora dall’indice Dow Jones della Borsa americana. Quasi un essere umano su sei non ha abbastanza da mangiare, mentre Wall Street recupera valori che la crisi un anno fa aveva dimezzato.
Mille e venti milioni di persone contro quota diecimila. Le prime soffrono la fame, il secondo è il livello raggiunto ora dall’indice Dow Jones della Borsa americana. Quasi un essere umano su sei non ha abbastanza da mangiare, mentre Wall Street recupera valori che la crisi un anno fa aveva dimezzato. In 20 anni il numero di affamati cresce del 20%, in 10 mesi le quotazioni di Borsa rimbalzano del 50%. Mentre Fao e Programma alimentare mondiale pubblicano il loro rapporto The state of food insecurity, vediamo in tv le scene di gioia a New York per il ritorno a un livello già raggiunto nel 1999.
E’ così che il mondo ha reagito alla crisi: un mare di liquidità alla finanza per recuperare le perdite, e prezzi più alti per il cibo: ricchi più ricchi e poveri senza pane quotidiano. Siamo più precisi: è così che i governi dei paesi ricchi e le banche centrali hanno scelto di tamponare lo scoppio della bolla speculativa. Ignorando – chi più, chi meno – la crisi dell’economia reale e i milioni di nuovi disoccupati nei paesi ricchi, dove – ci informa la Fao – ci sono ora 15 milioni di persone che non si nutrono a sufficienza. A pagare il conto restano i poveri del Sud del mondo, che hanno subito prima la liberalizzazione forzata dei mercati agricoli – devono produrre beni primari per i mercati esteri, non per nutrirsi -, poi l’impennata dei prezzi di beni alimentari che devono importare in misura crescente, e ora la crisi che ha fatto crollare esportazioni, redditi e rimesse degli emigrati.
La violenza di questi numeri richiama un miliardo di tragedie umane, ma pone a noi tutti un problema politico ed economico: mettere in discussione la distribuzione del reddito a livello mondiale. Non si tratta di lamentare la povertà, ma di combattere disuguaglianze di reddito sempre più gravi. E’ questa emergenza – e la fame che ne consegue – che dovrebbe essere al centro dei progetti di governance globale, insieme al nuovo sistema finanziario e agli accordi sul clima di Copenhagen.
A guardar bene, gli affamati sono un problema, ma anche una possibile soluzione. Non ci vuole Keynes per immaginare che se il sistema internazionale affrontasse la fame, avremmo la creazione di una grande domanda che ci farebbe uscire dalla recessione mondiale. Dare due dollari al giorno a chi soffre la fame fa meno degli 800 miliardi di dollari stanziati da Obama per la crisi Usa. Per la maggior parte dei poveri questo sarebbe un raddoppio del loro reddito pro capite. Le briciole del Nord sono un miracolo per il Sud.
Dove trovare questi soldi? Sappiamo già che i governi da decenni promettono, senza mantenere, aiuti contro la fame. Allora prendiamo i soldi dove li ha presi Obama: forse oggi Keynes proporrebbe di creare liquidità a livello mondiale (con un Fondo monetario rivoluzionato) e assegnare le risorse non agli speculatori della finanza, ma ai dannati della terra. Dalle crisi – come nel 1929 – si esce con nuove politiche e nuovi valori. Potrebbe nascere, in tutto il pianeta, una diversa fase di sviluppo, forse degna di questo nome.
Mario Pianta, Università di Urbino
Anche su il manifesto
16 ottobre 2009