La benedizione di Obama al nuovo governo israeliano


Roberto Prinzi - Nena News


I primi passi del nuovo governo ultranazionalista israeliano tra aspettative e timori di instabilità. Con la benedizione di Obama, “il più ebreo dei presidenti Usa”.


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A quasi due mesi dalle elezioni di gennaio, Israele ha un nuovo governo. Due giorni fa alla Knesset [il Parlamento israeliano] la fiducia con 68 voti favorevoli, 48 contrari e 4 astenuti. Sarà diretto nuovamente dal premier uscente Benyamin Netanyhau e sarà rappresentato da 21 ministri e 8 viceministri provenienti dal Likud-Beitenu, Yesh 'Atid, Casa Ebraica e HaTnu'a.

Un governo fortemente di destra che strizza l'occhio ai coloni sia per la presenza di Bennet (leader di Casa Ebraica) e del suo partito nazionalista religioso (capace di superare a destra persino l'Yisrael Beitenu dello xenofobo Liberman), ma anche per la stessa lista del Likud dove le voci "moderate" sono state sostituite da quelle estremiste. Il primo ministro riconfermato Netanyahu (al suo terzo governo) avrà di sicuro tirato un sospiro di sollievo ottenuta la fiducia parlamentare. Le ultime settimane erano state molto complicate per lui: le estenuanti trattative per la formazione della nuova coalizione erano state rese difficili dal patto siglato tra il laico Lapid di Yesh 'Atid e il nazionalista religioso Bennet di Casa ebraica.

I due, forti dell'ottimo risultato elettorale, sono stati i veri protagonisti di questi ultimi due mesi. Dopo aver stupito tutti i commentatori locali nelle legislative di gennaio, hanno imposto al premier l'uscita (seppur mai esplicita) degli ultraortodossi, graditissimi a Netanyahu perché facilmente domati nella scorsa legislatura. Ma nonostante i suoi "deludenti" 31 seggi, il navigato Bibi si è difeso bene riuscendo ad ottenere ben 12 ministri (8 per il Likud, 4 per l'Yisrael Beitenu). Ha poi saggiamente distribuito la carica di viceministri ai riottosi parlamentari del suo schieramento che lamentavano una certo "abbandono" da parte sua nei loro confronti nonostante gli ottimi risultati conseguiti alle primarie del partito.

Dicasteri importanti per il Likud-Beitenu: Difesa (con il falco Ya'alon), gli Interni (con il Ministro dell'Istruzione uscente Sa'ar), quello dell'Energia e dell'acqua e dello sviluppo del Negev e della Galilea (all'esperto Shalom), confermato Katz ai Trasporti e spostato al Ministero dei rapporti internazionali e strategici il Ministro dell'Economia uscente Shtaiz. Inoltre è riuscito a difendere gli Esteri dalle mire di Lapid e che tornerà all'ultranazionalista Liberman una volta terminato il suo processo. Tra i ministri del Likud-Beitenu merita una menzione anche Yair figlio dell'ex premier Yitzhak Shamir (in passato anche ex comandante del gruppo terroristico sionista Lehi) che andrà all'Agricoltura. Un bottino niente male dati i numeri.

La soddisfazione di Lapid e Bennet

Ma se Bibi può ritenersi moderatamente contento (nonostante la perdita degli ultraortodossi), a cantare vittoria sono le due «facce nuove» della politica israeliana: Lapid e Bennet. Il primo, forte dei suoi 19 seggi, ottiene cinque dicasteri: quello delle Tesoro (che sarà lui stesso a dirigere), l'Istruzione strappata al Likud dopo una lunga battaglia in fase negoziale (a dirigerlo sarà Shai Peron), quello della Salute affidato a Yael German (ex sinistra sionista), Welfare (a Cohen) e Scienze (a Pri). La sua maggiore vittoria non è tanto quantificabile nel numero dei dicasteri, ma, piuttosto, è data dall'esclusione degli ultraortodossi dal governo e dall'accordo raggiunto sull'"uguaglianza nei doveri" cioè nell'arruolamento dei religiosi nell'esercito.

Bennet, dal canto suo, è apparso molto soddisfatto ieri e ne ha ben donde. Tre i dicasteri: Economia e Commercio (sotto la sua direzione), quello per gli Affari per i pensionati (a Uri Orvach), ma soprattutto quello della Costruzione e dell'Abitazione (si legga anche quello degli insediamenti) che andrà al colono Uri Ariel. Se consideriamo anche la presenza di Ya'alon alla Difesa, storicamente sponsor degli insediamenti illegali in Cisgiordania, possiamo ben comprendere la felicità degli ultranazionalisti: un malleabile Ministro alla Difesa (a cui spetta l'ultima parola su tutti i progetti civili in Cisgiordania) e un colono al Ministero alla Costruzione semplificherà e accelererà l'allargamento delle colonie in Cisgiordania e aumenterà la presenza ebraica nei quartieri palestinesi di Gerusalemme Est, la cui giudizzazione è tema molto caro all'estrema destra israeliana. La Casa Ebraica di Bennet non si opporrà a chi nel prossimo governo (per esempio come Livni a cui è stata affidata la Giustizia) proverà (timidamente) a riprendere le negoziazioni con la controparte palestinese.

Infatti ai coloni appare ormai chiaro che allo stato attuale, anche nel caso in cui le trattative dovessero ricominciare, queste non porterebbero ad alcun risultato concreto e, soprattutto, mai prevederanno lo smantellamento degli insediamenti illegali in Cisgiordania.

Gli scontenti e gli infuriati

Chi non può sorridere del tutto sono le donne: sebbene quattro (Livni, German, Livnet alla Cultura e allo Sport e Lendver alla Salute) sia il record della presenza femminile alla guida dei dicasteri in Israele, appare un numero ancora troppo esiguo e insignificante su 22 per uno stato la cui hasbara (propaganda) in Occidente fa dell'uguaglianza dei sessi, a differenza degli «arretrati vicini arabi», un suo caposaldo. Presenza femminile che dovrebbe venire a mancare anche nelle principali Commissioni parlamentari come quelle relativa agli Esteri alla Sicurezza, e all'Economia. Una sproporzione tra presenza maschile e femminile che non è passata inosservata al Controllore dello Stato, il giudice Yoseph Shapira che ha suggerito di porre alla testa della commissione di controllo dello stato una donna. Proposta che quasi certamente cadrà a breve nel vuoto.

Infuriati sono gli ultraortodossi che hanno protestato vibratamente durante la presentazione del governo alla Knesset due giorni fa: «Un ebreo non caccia un altro» è stato il coro di indignazione che si è elevato dai banchi del Parlamento quando il Premier ha letto il nome di Bennet. Una dura contestazione che è stata seguita dall'abbandono dell'aula. Il leader di Casa Ebraica è visto dagli ultraortodossi ashkenaziti di Giudaismo della Torà e da quelli sefarditi di Shas come il principale responsabile della loro estromissione dal governo e viene accusato di aver tradito pertanto i valori religiosi di cui si dichiara portavoce. Ma il richiamo ad una presunta discriminazione ebraica degli ultraortodossi non è stato nuovo in queste ultime settimane e forse ciò che si è assistito due giorni fa ne ha rappresentato solo il climax.

Il presunto «boicottaggio fra gli stessi ebrei» è stata l'accusa rivolta da Shas a Lapid che non li ha voluti nel governo. Anche Netanyahu, nel chiedere al Presidente Peres di un prolungamento per formare il governo, aveva parlato di «difficoltà sorte dal boicottaggio di alcuni settori verso altri» accusando implicitamente Bennet.

Ma una dura condanna al nuovo governo è piovuta anche da Yechimovitch, leader dei laburisti, che ha criticato i «capitalisti Lapid, Bennet e Netanyahu, gente che non sa cosa vuol dire guadagnarsi da vivere». «Una dirigenza» – ha continuato Yechimovitch – «sazia, ricca che ha difficoltà a comprendere le difficoltà del popolo. Voi siete l'espressione di una visione del mondo economica di destra, che consacra il modello esistente che ha aumentato la sperequazione tra i ricchi e i poveri come in nessun altro paese occidentale, facendo l'opposto di quanto sognava il sionismo». Ciononostante ha lasciato una porta aperta ad un eventuale suo ingresso al governo a patto che Bibi possa pensare più seriamente («non soltanto in un discorso all'Università di Bar Ilan») a raggiungere un accordo con la controparte palestinese.

Stupisce che solo ora Yechimovitch parli del tema politico dopo che, da quando è stata eletta a capo dei laburisti, abbia preferito evitarlo dedicandosi al problema della "giustizia sociale". Ma in un Paese dove la maggior parte del «blocco di opposizione combattiva» dopo due mesi già risiede al governo (o avrebbe voluto come Mofaz di Kadima che ha elemosinato un dicastero per concessione di Lapid senza alla fine ottenerlo) niente dovrebbe più stupire.

I primi passi del nuovo governo

«Apriamo oggi il tavolo del governo e lo ripuliamo. Mettiamo le controversie da parte, lavoriamo insieme» ha dichiarato un raggiante Netanyahu nella prima riunione di governo. Non ha nascosto la sua felicità ed emozione, nonostante le grandi «sfide che aspettano lo Stato d'Israele» e si è complimentato con la sua nuova formazione, «c'è gente eccezionale, persone di talento, di esperienza e gente fresca. L'unica strada che abbiamo per ottenere risultati è la collaborazione che sono certo avremo».

Già in tarda serata due giorni fa è stata modificata la legge di bilancio che allungherà il tempo massimo per l'approvazione del bilancio per il 2013 a 135 giorni (a partire dalla formazione del governo). É stato poi approvato il disegno di legge per il Gran Rabbinato prolungando la carica dei Rabbini capi attuali.

Nella mattinata di ieri poi ci sono state le cerimonie dei passaggi di consegna dei ministeri. Si è rivisto in pubblico anche Ehud Barak (che ha scelto pochi mesi fa di ritirarsi dalla vita politica) che ha espresso la sua stima per il suo successore Ya'alon al Ministrero della Difesa. Parole al miele anche del vice segretario dell'Istruzione al neo ministro Piron che è apparso visibilmente emozionato per la carica.

Ma c'è chi, anche in questa occasione, non ha saputo e voluto cambiare registro linguistico. Consegnando il Ministero degli Interni al neo Ministro Gideon Sa'ar, Yishai ha sottolineato gli ottimi risultati della sua gestione nell'affrontare la questione degli «infiltrati» [i richiedenti asilo per la destra, ndr]: «Ho condotto una lotta [contro di loro] senza cedere a compromessi e sapevo che se non avessi provveduto velocemente, adesso avremmo avuto 200.000 immigrati. Abbiamo ostacolato il loro ingresso, questo è una grande risultato». Ha fatto esplicito richiamo ai coloni Tzipi Livni nel suo insediamento al Ministero della Giustizia: «Questo dicastero è un faro che illumina la società israeliana. Voglio combattere il razzismo e mi impegnerò affinché i responsabili del "Price Tag" paghino un prezzo salato».

Gli interrogativi del nuovo governo

Bisogna però capire come questi suoi buoni propositivi possano integrarsi in un governo dove i coloni potrebbero avere il sopravvento. Altri interrogativi che questo trentatreesimo governo d'Israele pone riguardano l'atteggiamento di Lapid e di Bennet: saranno fedeli alleati di Netanyahu o gli creeranno solo grattacapi? E il patto Lapid-Bennet durerà davvero? La coalizione formata riuscirà ad affrontare le sfide difficili (interne ed esterne) che attendono Israele? Potrà farne a meno degli ultraortodossi?

L'analista politico di Ha'Aretz Werter ha ipotizzato qualche giorno fa due scenari futuri. Nel primo Bibi potrebbe far entrare nel suo governo gli ultraortodossi in una fase successiva obbligando così Lapid a lasciare. A quel punto Bennet ingoierebbe la pillola amara senza alzare troppo la voce per non inimicarsi il suo bacino elettorale religioso. Il secondo potrebbe essere rappresentato da una maggioranza di 55 seggi che Netanyahu potrebbe chiedere alla Knesset (senza Lapid ma con gli ultraortodossi) a cui sarebbe costretto a prendere parte anche Bennet per la pressione che su di lui potrebbe esercitare l'elettorato di destra. Ma se questi possono sembrare fanta-scenari (neanche poi così tanto), certi invece saranno i tentativi che escluderanno sia i palestinesi (cittadini d'Israele, dei Territori Occupati e della Diaspora) sia tutte le forze di sinistra, sioniste o meno che siano.

Inquietante a tal proposito è l'eventuale accordo, stipulato durante la formazione del nuovo governo, di alzare dal 2% al 4% la soglia di sbarramento alle elezioni. Ciò vorrebbe dire estromettere dalla Knesset tutti i partiti piccoli (e in particolare quelli che erroneamente vengono accomunati dall'aggettivo "arabi") ed aggravare lo stato di salute della già malconcia democrazia israeliana.

Una decisione che ha fatto rabbrividire anche Rivlin del Likud (sebbene in rotta con il leader Netanyahu per non essere stato rieletto come presidente della Knesset) che ha parlato di decisione «ingiusta e inutile». E se il Ministero della Costruzione è ormai in mano ai coloni ecco che le parole di un alto funzionario di Casa Ebraica rilasciate l'11 marzo (e dunque precedenti la definitiva composizione del governo) sono più che un triste presagio: «Tutti sappiamo che non permetteremo il congelamento della costruzione delle colonie. Il congelamento non è mai stata una condizione dei colloqui e non c'è alcun motivo per cui lo sarà nel futuro».

Obama in Israele…

E intanto arriva Obama nel disinteresse totale del mondo politico israeliano. Del resto se è venuto da «turista in Israele», come ha scritto il noto editorialista del New York Times Fridman, perché dovrebbe impensierire un governo dalle idee chiare e che non alcun bisogno di parlare con chi vuole solo "ascoltare"? Ad incoraggiare il sostegno incondizionato americano a qualunque atteggiamento che Israele prenderà con i vicini è proprio la stampa locale che, citando il giornalista Goldberg molto vicino al Presidente americano, ha ribadito quanto Barak «sia il più ebreo tra i Presidenti americani». In effetti come contraddirlo soprattutto dopo la sua intervista al Canale 2 israeliano dove aveva ribadito che «voglio sapere quale è la loro [di Netanyahu e Abu Mazen, ndr] visione e dove vogliono andare».

Ma il suo "ascoltare" sarà diverso a seconda se il suo interlocutore sarà israeliano o palestinese osserva Gideon Levy di HaAretz prestando attenzione al linguaggio utilizzato dal Presidente Obama: «Il premier d'Israele sarà sempre Bibi per lui, mentre i leader palestinesi sono Abu Mazen e Salam Fayyad. Ad Abu Mazen lui "dirà", a Bibi lui "suggerirà". Bibi è stato ripetuto all'infinito e mai una volta è stata menzionata l'occupazione, mai una parola sulla giustizia. E anche la sicurezza, che sarà solo d'Israele, mai dei palestinesi che vivono pericoli maggiori».

Ma questo solo "ascoltare" di Obama, il silenzio del mondo politico israeliano (tranne poche eccezioni) prima e dopo le elezioni sull'occupazione dei territori palestinesi sono dati che mostrano quanto il dramma palestinese sia ormai una questione secondaria, un problema "di nicchia", di "poco conto" che non merita più neanche un menzione e che, ormai, viene solo di rado strumentalizzata per fini elettorali. Quante prove ancora dobbiamo avere per capire che venti anni di Oslo hanno riportato la lotta e il sacrificio palestinesi indietro di decenni?

Fonte: Nena News

20 marzo 2013

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