La battaglia di Kabul


Emanuele Giordana - Lettera22


Venti ore di guerra in città e almeno 13 morti. A pochi giorni dal rientro della prima missione pacifista in Afghanistan, un attacco al cuore di Kabul.


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La battaglia di Kabul

Hanno aspettato che finisse il Ramadan. Aspettato che passasse l’11 settembre. E anche il 12. Poi, passata l’ora di pranzo del 13 (orario inusitato per questo genere di attacchi), a due giorni dall’anniversario delle Torri gemelle, i talebani hanno attaccato il cuore di Kabul. Un piano preparato, meditato ed eclatante messo in atto con una strategia precisa che mirava a colpire, in una volta sola, Nato, americani, ambasciate occidentali, palazzo presidenziale e Nazioni unite (che si trovano tutte riunite nella stessa area blindata) oltre a simboli delle istituzioni: ministeri, le sedi di diversi corpi di polizia e quella dei servizi di sicurezza che si trovano sempre nelle vicinanze della cosiddetta “Zona verde”. Un’area di circa 4 kmq semi inaccessibile via terra e infatti colpita ieri dall’aria. La ricostruzione di quanto accaduto ieri (con un bilancio incerto di alcuni morti – almeno 13 – e diversi feriti), ancora parziale e confusa, racconta però già diversi particolari.

E la lettura della strategia messa in campo disegna anche abbastanza bene la firma in calce all’azione talebana (galassia disomogenea che, dietro a una sigla, ha strategie, obiettivi e tattiche diverse). Anche se la polizia propende a considerarla un operativo della fazione “Haqqani”, sembrerebbe un’azione del gruppo di Quetta, quello che fa capo a mullah Omar, la “vecchia guardia” talebana: l’obiettivo è infatti molto politico e l’operazione sembra aver contemplato il desiderio di evitare (troppe) vittime innocenti. I talebani hanno preparato una serie di commando per colpire in più punti della città per dare la sensazione di essere in grado di bloccare il cuore pulsante della capitale. Ma hanno anche meticolosamente preparato la scelta del “covo” in cui asserragliarsi e colpire dall’alto, con razzi e proiettili, il centro simbolico e geografico del potere: sia afgano, sia straniero.

Se uno dei primi colpi messi a segno è stato il palazzo della Nds (l’intelligence), i commando del covo hanno sparato da un edifico in costruzione abbastanza alto per consentire loro di avere sotto mira la zona che, per scelta dei suoi residenti, raccoglie in pochi chilometri quadrati il cervello del nemico. Dall’edifico hanno iniziato a sparare razzi e colpi di mitraglia cercando di colpire il quartiere generale Isaf/Nato e l’ambasciata americana, che stanno uno di fronte all’altra. Ma senza preoccuparsi troppo: in quell’aera infatti c’è ogni ben di Dio e “dove cogli cogli”. Poco più avanti c’è l’ambasciata italiana (che infatti è stata colpita), la Cooperazione italiana, una fila di caserme e depositi americani, l’ambasciata tedesca, la residenza dell’ambasciatore indiano, gli uffici dei russi, la legazione pachistana, la missione Onu e chi più ne ha ne metta. Solo qualche colpo non è andato a segno e alcuni razzi sono caduti sul vicino quartiere di Wazir Akbar Khan colpendo tra l’altro anche Tolo Tv, la maggior emittente privata del Paese.

Nel frattempo altri commando, con cinture esplosive e armi pesanti, mobili si facevano saltare o colpivano altrove: la sede dei servizi, la polizia doganale, altri obiettivi “sensibili”. La reazione delle forze di sicurezza afgana non si è fatta attendere e la battaglia è durata ore con l’appoggio di mezzi aerei e di terra da parte della Nato. Ma la rassicurazione arrivata da Bruxelles, dove il segretario generale dell’Alleanza Rasmussen ha smentito che l’attacco possa influire sul processo di transizione (nel 2014 il controllo della sicurezza dovrebbe passare interamente agli afgani), non ha mitigato l’idea che la guerriglia abbia ormai deciso una dimostrazione di muscoli senza precedenti: non più scontro in campo aperto né attacchi suicidi con un unico obiettivo (spesso casuale) ma azioni coordinate e che, più che morti, facciano rumore.

L’attacco giunge in un monento delicato: l’avvio della transizione, la preparazione della Conferenza internazionale di Bonn a dicembre e l’avvio di un processo di pace di cui si sa e si capisce molto poco. Anche se ieri, l’ex ministro degli esteri talebano Muttawakil ha riproposto l’ipotesi dell’apertura di un ufficio politico dei talebani all’estero (se n’era già parlato suggerendo Ankara) per facilitare il processo di pace. Muttawakil ha fatto all’agenzia Pajhwok il nome di Doha la capitale del Qatar.

Fonte: Lettera 22, Terra

14 settembre 2011

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