L’Italia e l’azzardo libico
Umberto De Giovannangeli - L'Huffington Post
Sotto egida Onu siamo pronti a prendere il comando delle operazioni in Libia? In una parola, significa prepararsi a una guerra. Alle porte dell’Italia.
È facile dire: sotto egida Onu siamo pronti a prendere il comando delle operazioni in Libia. È facile, se si vuole evitare di intervenire. Perché, se invece il discorso si fa serio, allora il riferimento alle Nazioni Unite porta immediatamente con sé un corso intensivo di storia delle relazioni diplomatiche, abbinato a uno di geopolitica. E’ giusto, anche se un po’ troppo tardivo, l’allarme lanciato dal titolare della Farnesina, Paolo Gentiloni: quando, riferendosi al caos libico, parla di «minaccia terroristica attiva a poche ore di navigazione dall’Italia».
Aggiungendo che se non si dovesse arrivare a una mediazione, «bisogna pensare con le Nazioni Unite a fare qualcosa in più». «L’Italia è pronta a combattere, naturalmente nel quadro della legalità internazionale». E ancora: “Le immagini della bandiera nera dell’Isis sulla cupola di San Pietro sono «farneticazioni propagandistiche, che non possiamo però sottovalutare».
Sulla stessa linea il premier Matteo Renzi che, intervenendo giovedì sera all’uscita del Consiglio europeo, aveva parlato di «emergenza internazionale, non solo europea». «La Libia è un grande problema del nostro tempo, da risolvere con decisione e probabilmente anche con impegno ulteriore», aveva aggiunto. «L’impegno di Bernardino Leon dell’Onu non è stato purtroppo sufficiente, l’Italia è pronta a fare la propria parte». Una parte pesantissima. Che, però, dovrebbe passare attraverso una legittimazione internazionale data dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Nel massimo organismo decisionale dell’Onu, vi sono cinque Paesi membri permanenti, con il diritto di veto: tra questi – assieme a Usa, Cina, Francia e Gran Bretagna – c’è la Russia. Se si vuole davvero l’”egida Onu”, il coinvolgimento di Mosca è un passaggio ineludibile. Il che porta dritto ad una questione di fondo che l’Europa non ha il coraggio di affrontare di petto: la questione-Russa. Delle due, l’una: o, come sostiene il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, la Russia è una semplice “potenza regionale”, e allora non si capisce perché dovrebbe essere interessata e coinvolta su fronti esplosivi come sono la guerra allo Stato islamico, e la stabilizzazione dell’infuocata sponda Sud del Mediterraneo, o altrimenti si cerca di definire una nuova partnership globale euroatlantica-russa sulla sicurezza, e ciò porta con sé un diverso approccio sul fronte ucraino. Ma c’è di più.
Mosca non ha dimenticato lo smacco subito all’Onu proprio sulla Libia quando, sull’onda di una emergenza umanitaria, decise di astenersi sulla risoluzione che dava via libera a, limitate, operazioni militari Nato contro le forze di Muammar Gheddafi. A torto o a ragione, la Russia si sentì beffata dalla conduzione di quella guerra, quando apparve chiaro che l’obiettivo finale di Sarkozy and company, era quello di abbattere il regime del Colonnello. Quella ferita non si è più rimarginata e ha avuto un peso significativa nel comportamento tenuto da Mosca nella crisi siriana. C’è poi la questione operativa. Per ottenere la guida della missione Unifil 2 in Libano, l’Italia (estate 2006) mise in campo tremila uomini. Nove anni dopo, siamo disposti a sostenere un impegno analogo sul piano quantitativo, e ancor più pericoloso sul piano operativo, visto che si tratterebbe di entrare in azione per disarmare oltre duecento milizie, bene addestrate e ancor meglio armate? C’è cognizione dei costi (ingenti) e dei rischi (ancor più ingenti)? Per capire con chi avremmo a che fare, è utile riportare la dettagliata analisi delle forze jihadiste in campo, operata da Pietro Batacchi, direttore della Rivista Italiana Difesa (RID), e Andrea Mottola . Ad oggi – rimarcano gli autori – sarebbero già oltre 2000 i miliziani jihadisti che si richiamo al Califfato di al-Baghdadi operanti in Libia, un numero che cresce di giorno in giorno ingrossato da scissioni continue tra i ranghi delle altre formazioni jihadiste. Nei fatti Isil è all'offensiva in diverse parti del nord della Libia approfittando della feroce lotta tra le forze del Gnerale Haftar e le forze che si richiamano alla Fratellanza Musulmana libica. Un'altra milizia apertamente jihadista è Ansar al-Sharia. Si tratta in realtà di una milizia di matrice puramente qaedista legata sia ad AQMI che all’Ansar al-Sharia tunisina e può essere considerata l’erede del Gruppo Combattente Islamico Libico (LIFG), storico gruppo islamico attivo in Libia anche durante gli anni del regime di Gheddafi. Ansar al-Sharia è considerata responsabile dell'uccisione dell'Ambasciatore americano Stevens nel 2012.
Il suo obiettivo dichiarato è l’instaurazione di un califfato libico e, in tal senso, va ricordata la dichiarazione risalente ai primi di agosto 2014, quando il suo leader Muhammad al-Zahawi, dopo aver costretto le forze di Haftar alla ritirata da Bengasi, non esitò a definire la città emirato islamico. Per quanto riguarda la composizione del braccio armato del gruppo – rileva ancora il direttore di RID – esso può contare su almeno 5.000 miliziani, schierati tra Bengasi e Derna. Alleata di Ansar al-Sharia è la Brigata Omar al-Mukhtar, dal nome dell’eroe della resistenza libica durante la guerra coloniale italiana. La brigata è composta da circa 250 miliziani, guidati da Ziyad Balaam, e opera principalmente nelle aree intorno a Derna, Ajdabiya e Bengasi. Sempre a Bengasi è presente anche la Brigata dei Martiri del 17 Febbraio, probabilmente la milizia più grande e ben armata della Libia orientale. Il gruppo è formato da 3/4.000 miliziani alla cui guida c’è Fawzi Bukatef, membro della Fratellanza Musulmana libica, ed è costituito da 12 battaglioni. Oltre che a Bengasi, il gruppo è presente anche nella zona di Kufra, nel sud del Paese. Vero e proprio nerbo della Brigata dei Martiri del 17 Febbraio è la Brigata Rafallah al-Sahati, composta da circa 1.000 combattenti. L’elenco di gruppi, milizie, bande, tribù in armi sarebbe interminabile.
Il “Far West” libico dà conto di una disfatta della comunità internazionale. Quanto a Sirte, la conquista della città natale di Gheddafi, è stata resa possibile dall'assenza di una qualsiasi autorità di governo dai tempi della rivolta contro il Colonnello. L'area è diventata roccaforte per diverse organizzazioni estremiste, che si sono spartite le varie zone. I jihadisti entrati a Sirte, hanno preso , prendendo il controllo di una tv governativa e di due radio locali, "Radio Syrte" e "Mekmedas", sulle cui frequenze risuonano ormai la voce e i proclami del califfo Abu Bakr al-Baghdadi e del suo portavoce. Isis verso la Tunisia Sui social network circolano foto di uomini in divisa mimetica, armati e incappucciati, in uno studio radiofonico. L'Isis si starebbe spostando anche verso il confine con la Tunisia, a Surman, un'altra città costiera a circa 60 km dalla capitale, dove gli affiliati di al-Baghdadi hanno distribuito volantini con indicazioni per le donne, minacciando il ricorso alle armi per chi non si adegua. Già presenti in Cirenaica, nelle scorse settimane gli affiliati allo Stato islamico hanno di recente preso di mira Tripoli e rivendicato l’attacco kamikaze all’hotel Corinthia del 27 gennaio, in cui hanno perso la vita almeno 5 stranieri. I media libici riferiscono di attacchi odierni ad altri due pozzi petroliferi, uno a El-Bahi nei pressi del terminal costiero di Ras Lanuf, e l'altro a el-Dahra, nel sud ovest. Ad Al-Bahi gli scontri a fuoco con le guardie del giacimento sono iniziati all'alba e in mattinata erano ancora in corso. Ad El-Dahra uomini armati dell'Isis hanno dato fuoco a una raffineria, definita "una delle più importanti" della zona di Sirte. Il 4 febbraio l'Isis, attraverso Ansar al Sharia, aveva attaccato un altro pozzo libico francese, al Mabrouk, a circa 170 km a sud di Sirte facendo almeno 10 morti. Fonti libiche riferiscono che i miliziani dello Stato islamico "hanno dato tempo fino a domenica alle forze di Fajr Libya per lasciare Sirte".
Le milizie filo-islamiche che controllano Tripoli – dove hanno imposto un governo "parallelo" vicino ai Fratelli musulmani – controllano infatti parte della città portuale. Ma a Sirte l'Isis aveva già messo a segno tra la fine di dicembre e i primi di gennaio il sequestro di almeno 21 egiziani copti. Ieri alcuni account Twitter riconducibili allo Stato islamico ne hanno annunciato l'uccisione e mostrato le foto nella tuta arancione dei prigionieri. La notizia ha trovato conferma dal Parlamento libico Lo riferisce la tv di Stato citata dal Daily News Egypt su Twitter. Nei giorni scorsi i media egiziani avevano riferito che l’Isis aveva sgozzato i 21 copti, ma il Cairo non aveva confermato. Intanto un’esplosione a un oleodotto ha fermato il flusso di greggio dal campo di estrazione di El Sarir al porto di Hariga. Secondo un portavoce della compagnia petrolifera Noc in quel momento c’era una petroliera che si stava rifornendo al porto e i lavori di riparazione potrebbero richiedere fino a tre giorni. Non è chiaro se l’esplosione sia sta accidentale o frutto di un attentato.
“Se davvero volessimo combattere lo Stato Islamico – annota Gianandrea Gaiani, tra i più preparati analisti di strategie militari – avremmo schierato a Tobruk il dispositivo dislocato in Kuwait per la guerra in Iraq, ancor meglio se con bombardieri Tornado armati di bombe e missili. Dovrebbe preoccuparci di più il Califfato a Derna (500 chilometri dalle coste italiane) che quello a Mosul e Raqqa.Con le stesse forze aeree (droni, bombardieri e tanker) e terrestri (istruttori e consiglieri militari) potremmo contribuire direttamente e con costi minori alla guerra contro jihadisti e islamisti in Libia affiancando l’Egitto nel sostenere il governo legittimo libico”. Delle considerazioni del ministro Gentiloni, si è posto l’accento sulla necessità di intervenire “sotto egida Onu”. Ma la parola chiave, ancor più di Onu, è un’altra. Quella parola è “combattere”. Che non è la traduzione italiana di “peacekeeping”. Combattere significa definire regole d’ingaggio non difensive; significa impegnarsi attivamente non solo nell’addestramento di ciò che resta dell’esercito libico, ma agire per disarmare le milizie, liberare i centri occupati dalle diramazioni nordafricane dello Stato islamico. Combattere a terra, e non solo con missioni aeree o bombardamenti navali. Significa preparare l’opinione pubblica a situazioni di rischio e anche a pagare un tributo di sangue. In una parola, significa prepararsi a una guerra. Alle porte dell’Italia.
Fonte: www.huffingtonpost.it
14 febbraio 2015