L’elezione di Obama vista da Kabul
Emanuele Giordana - Lettera22
Obama o Romney per gli afgani non fa molta differenza anche se tra i due è meglio il presidente americano riconfermato al suo seocndo mandato nelle elezioni del 6 novembre.
La prima preoccupazione degli afgani, in fatto di vicende elettorali, è stata in questi mesi la data delle consultazioni presidenziali nazionali e la domanda su chi saranno i candidati in corsa per sostituire Hamid Karzai, al termine del suo secondo mandato e cui la Costituzione vieta di ricandidarsi. Sciolto il primo nodo (la data è stata annunciata per aprile 2014) resta il secondo, che difficilmente si scioglierà a breve e con facilità. Non di meno, anche grazie a giornali, radio e soprattutto Tv – una novità nata nel dopo 2001 in un Paese dove media vecchi e nuovi si sono guadagnati uno spazio e un'attenzione di tutto rispetto – le elezioni americane non sono passate inosservate. Gli Stati uniti sono il primo partner dell'Afghanistan sotto diversi aspetti: in termini militari (circa 70mila soldati) ed economici, da poco ribaditi in un accordo che vincola i due Paesi a una stretta collaborazione oltre il 2014, data fissata per il ritiro dei contingenti militari.
Dire quanto il dibattito tra i due candidati sia penetrato in profondità nella testa degli afgani è difficile da valutare, tenuto conto anche del fatto che esistono per molti una barriera linguistica e un gap tecnologico che impediscono un'analisi approfondita nel web. Inoltre la percezione in generale della nebulosa Stati uniti, resta viziata dal coinvolgimento di Washington in una guerra che dura da oltre dieci anni con le inevitabili ombre che accompagnano un conflitto tanto lungo. Il dato comunque certo è che gli afgani pensano agli Stati uniti come al maggior attore occidentale nella politica afgana e dunque un cambio o una riconferma del loro presidente non possono passare inosservati.
Se si comincia dagli intellettuali, si può dar conto di un incontro pubblico avvenuto a fine ottobre proprio per discutere del futuro post elettorale americano rispetto all'Afghanistan, di cui ha dato un ampio resoconto Pajhwok, l'agenzia di stampa indipendente nata diversi anni fa con il contributo dell'Occidente ma adesso, seppur con non poche difficoltà (ha dovuto decisamente ridurre la sua rete di corrispondenti), in grado di stare sulle proprie gambe. Abdul Ghafoor Liwal, a capo dell'Afghanistan Regional Studies Centre, sostiene ad esempio che i due candidati presidenziali non differiscono molto nella loro visione del mondo, Afghanistan incluso, motivo per cui, sostiene Liwal, non c'è da credere, nel bene o nel male, che la politica estera di Washington possa cambiare sia che vinca Barack Obama sia che a guadagnare la presidenza sia Mitt Romney.
Wader Safai, della facoltà di scienze politiche dell'Università di Kabul, aggiunge che gli americani sono pronti ad appoggiare solo una politica estera che serva gli interessi nazionali degli Stati uniti. Ma, argomenta, gli afgani preferiscono i democratici e per un semplice motivo: nella testa di chi vive in Afghanistan, i repubblicani sono quelli che hanno scelto la guerra quando erano al potere, i democratici hanno invece cercato di risolvere il problema. Una visione condivisa da un funzionario afgano della cooperazione internazionale: gli afgani – dice – ricordano chi ha iniziato il conflitto in Iraq e pensano che i repubblicani preferiscano in genere le “scelte muscolari”. I suoi concittadini, dice il funzionario che cita conversazioni personali con studenti o intellettuali afgani, pensano che un ritorno dei repubblicani potrebbe voler dire l'arrivo di nuovi militari. Sono invece sicuri del desiderio di Obama di voler portare a casa i soldati stellestrisce. Diverso se il focus si sposta sull'uomo della strada. Per lui, sostiene ancora il funzionario, democratici e repubblicani si equivalgono. Il tema dell'interesse nazionale torna nel commento di un altro analista politico afgano, Mohammad Neman Dost: come che sia, dice, «un presidente americano è obbligato a far terminare o a continuare la guerra in Afghanistan a seconda degli interessi nazionali del suo Paese». Quanto ai commenti sulla stampa locale (non molti per altro), l'orientamento è stato lo stesso e il giudizio generale è che il tema Afghanistan sia stato sollevato dai due candidati solo per dar fastidio al rivale.
Par di capire, insomma, che tendenzialmente si ritengano comunque univoche le scelte americane in politica estera, seppur con qualche differenza (nuance ha scritto la stampa americana). In buona sostanza, posto che evidentemente gli afgani credono a Obama (ha in effetti ritirato i 33mila soldati inviati col “surge” del 2008 come aveva promesso) e si sentono dunque più rassicurati da un presidente che ha mantenuto gli impegni, la sensazione generale è che non si aspettino grandi cambiamenti, che vinca l'uno o l'altro. E in un certo senso non vanno lontano da una realtà sotto gli occhi di tutti: il ritiro dall'Afghanistan – a parte qualche frase infelice di Paul Ryan che ha voluto rimarcare alcune differenze subito rintuzzate dal vice di Obama Joe Biden – è condiviso da entrambi e l'Afghanistan è stato forse l'unico vero punto in comune dei due candidati che su tutto il resto, dalla Russia alla Libia, passando per Iran e Israele, hanno fatto il possibile per prendere le distanze in politica estera l'uno dall'altro.
Se si passa all'analisi degli osservatori stranieri, secondo Fabrizio Foschini, ricercatore del think tank afgano Afghanistan Analysts Network, «si parla più delle elezioni dell'aprile 2014 che di quelle del 6 novembre. I più informati sostengono che l’assenza dell'Afghanistan dai grandi temi della campagna elettorale dimostra l’imbarazzo di entrambi i candidati nell’affrontare una situazione di stallo che non offre spunti positivi per fare propaganda. Se i contendenti hanno menzionato l’Afghanistan durante i dibattiti è stato unicamente per mettere in crisi l’avversario, e non in maniera propositiva. C’è l’impressione che comunque vada, l’opinione pubblica americana esigerà una condotta prudente e tendente al ritiro della maggioranza delle truppe nei termini stabiliti. Gli afgani – conclude – osservano comunque con interesse le posizioni dei candidati riguardo ai Paesi confinanti, Pakistan e Iran, e al tipo di politica estera globale che gli Stati Uniti adotteranno in futuro».
E' interessante il commento di Giuliano Battiston, un ricercatore italiano che passa buona parte dell'anno in Afghanistan dove ha condotto diverse ricerche, l'ultima delle quali sulla percezione nei confronti della presenza militare. «Non credo sia molto sentito tra gli afgani il tema delle elezioni presidenziali», sostiene l'autore di Le truppe straniere agli occhi degli afghani. «Gli afgani sanno che, più o meno, le politiche adottate saranno le stesse: Obama, ad esempio, ha aumentato gli attacchi con i droni in Afghanistan e Pakistan. Gli afgani sanno che il disimpegno militare è bell'e deciso…Forse – aggiunge – l'unica cosa su cui i più avvertiti, non certo gli afgani "comuni", si interrogano, è quale dei due presidenti vorrà mettere con più forza i piedi nel piatto delle elezioni presidenziali afgane».
La sensazione generale è che comunque, nonostante le paure del dopo 2014 che rimangono tutte, gli afgani pensino che gli americani porteranno a casa le truppe e anche che sia davvero giunto il momento di farlo. Persino i più accesi sostenitori del ruolo statunitense in Afghanistan, sono convinti che la scelta sia propizia anche perché ben vincolata dall'accordo di partenariato strategico siglato da Washington e Kabul. Ma il punto segnalato da Battiston resta forse il più interessante. Che gli americani abbiano “i piedi nel piatto” nel futuro militare o nel processo di pace afgano è una dato di fatto. E che in passato abbiano sostenuto un “loro” candidato alla presidenza (divenuto poi il candidato della comunità internazionale) è evidente. Cosa faranno adesso? E quale sensibilità potrebbe mettere in campo il nuovo presidente? Ma in assoluta assenza, al momento, di una qualsiasi candidatura certa per il post Karzai, a questa domanda ancora non si può rispondere anche se il buon senso propende a far credere che a un'alternativa si stia lavorando da più parti. Washington compresa.
Fonte: www.lettera22.it
8 novembre 2012