L’Africa, la Rai e quello sguardo miope dell’informazione italiana sul sud del mondo…
La redazione
Enzo Nucci, inviato speciale del Tg3 in ex Jugoslavia, Kossovo, Afghanistan, Iraq, è anche autore di numerosi reportage su Congo, Zimbawe, Somalia, Sudafrica, Iran. Oggi è il corrispondente per l’Europa dalla nuova sede Rai di Nairobi, Kenia. Alice Capucci, laureanda con una tesi sul giornalismo in Africa all’Università di Bologna, lo ha intervistato.
Perché l’Africa non fa notizia?
Il problema è che l’informazione italiana sconta, di fatto, un certo provincialismo per quanto riguarda l’informazione internazionale nella sua generalità. Questo lo vediamo dal fatto che i telegiornali pubblici e privati, ma anche i grandi giornali come Repubblica, il Corriere della Sera, la Stampa e il Sole 24ore dedicano un numero di pagine di gran lunga inferiore alla sezione degli esteri rispetto ad altri settori che sono molto più curati. C’è forse una stampa tutta locale rinchiusa nei suoi angusti confini che guarda molto poco a ciò che succede al di fuori di essi. Spesso è un’informazione che si parla addosso, che è autoreferenziale, e il giorno dopo le notizie date vengono automaticamente dimenticate e si passa ad altro. Questo ritardo sull’informazione internazionale è dovuta a vari fattori. C’è il fatto che l’Italia, per la sua storia, ha sempre poco guardato all’estero, al contrario di nazioni come l’Inghilterra, la Francia, la Spagna che hanno alle spalle secoli di colonialismo e per questo ancora oggi hanno interessi molto forti. Ci sono poi problemi di carattere economico, sono ancora forti gli investimenti finanziari di questi paesi in giro per il mondo ed è quindi logico che paesi come Francia e Inghilterra prestino più attenzione all’Africa, sulla quale hanno interessi diretti. C’è un problema di tipo linguistico, infatti in Africa dell’ovest si parla francese e nell’est inglese. C’è anche un problema di immigrazione, storica in Francia e Inghilterra mentre da noi è incominciata da poco.
Per tutte queste ragioni l’Italia guarda poco a questa sua dimensione internazionale, senza contare il fatto che l’informazione italiana è molto malata di provincialismo. Non faccio certo un’esaltazione della stampa inglese dove ci sono giornali popolari che sono ben peggiori dei nostri, dove come Fabrizio Corona ce ne sono altri mille.
Fatta questa premessa l’Africa è un po’ la cenerentola dell’informazione; in Italia non se ne parla affatto se non quando il continente si impone drammaticamente con i suoi problemi come carestie e guerre, o con avvenimenti negativi che in qualche modo possono toccare il nostro cuore o la nostra coscienza e farci mandare l’sms o regalare l’euro al bimbo con la mosca sugli occhi. Solo quando c’è un danno emozionale l’Africa riesce ad arrivare sui nostri giornali ma se ne parla poco o niente quando ci sono fatti positivi. Pensiamo solo al fatto che questo anno il festival di Venezia ha una sezione dedicata all’Africa che non è cosa da poco mentre noi la cultura africana la mettiamo all’ultimo posto. Spesso dimentichiamo che l’Africa ha dato dei premi Nobel per la letteratura e questo ci fa capire che dal continente nero arriva anche qualche cosa di diverso dalle notizie negative. L’Africa riesce a produrre cultura, musica, cinema e moda, anche se in Italia non arriveranno mai per questioni di mercato. Tutto questo aspetto dell’Africa è dimenticato.
C’è uno scrittore svedese, Henning Mankell, direttore del teatro di Mabuto in Mozambico, che dice giustamente che noi dalle immagini in televisione sappiamo come muoiono gli africani ma non sappiamo come vivono.
L’Africa certo è un continente con mille contraddizioni, in grande evoluzione, e inquadrarlo e fotografarlo risulta quindi molto difficile. Nel continente ci sono quasi un miliardo di persone divise in 54 stati ma questa semplificazione è stata una prerogativa dell’Occidente, infatti i gruppi etno- geografici in cui una volta era divisa l’Africa erano 40.000. La situazione quindi risulta molto complessa e stratificata e sfugge ad ogni riferimento. Noi occidentali, per problemi nostri, abbiamo semplificato il continente nero dividendolo in stati con tratti di matita e con questa azione abbiamo compiuto tanti atti di violenza fisica ma anche culturale, linguistica perché, per semplificare, abbiamo cancellato culture, popoli e antiche tradizioni. C’è questa semplificazione di pensare all’Africa come un tuttuno. Le lingue che si parlano oltre il francese e l’inglese sono migliaia. Solo in Sudan si innestano gruppi etnici e religiosi composti a loro volta da vari sottogruppi. C’è uno scrittore sudanese che dice che il suo paese è come le cartine che si vedono sui libri di medicina dove queste (come le illustrazioni del sistema nervoso, del sistema arterioso, ecc.) sono messe una sull’altra; questo per capire la complessità di un solo stato.
Non possiamo quindi capire l’Africa quando la semplifichiamo così, con l’accetta.
Essendo l’unico giornalista della Rai presente in zona e dovendo quindi coprire tutta l’Africa Subsahariana da solo, con quale criterio valuta e decide a quali servizi dedicarsi, quali avvenimenti descrivere?
Non è facile perché dover ricoprire tutta l’Africa è un’impresa immane. Già è un fatto positivo che si sia aperta questa finestra sul continente. Anzi, ora è un buco, speriamo che prima o poi si trasformi in una finestra o anche in un balcone. L’importante è cominciarle queste cose. Teniamo presente comunque che in questo contesto la Rai è il primo media italiano che apre una sede qui. I grandi giornali non ce l’hanno, mandano solo degli inviati per casi di emergenza. Per ora è chiaro che questo punto di osservazione serve a dare un minimo di continuità nello sguardo sull’Africa e creare una catena che consenta di poter guardare con costanza a questo continente. Non è facile perché è una situazione talmente complessa che non basterebbe nemmeno Superman per coprire tutto ciò. Poi dipende anche dal tipo di impegni richiesti dalla Rai; per ora ci stiamo occupando molto di reportage lungo, andando quindi su un posto per vari giorni cercando di sviscerare l’argomento, e non servizi brevi per i telegiornali.
Lei si è offerto volontario o è stato scelto per questo incarico di corrispondenza?
No, sono stato scelto dalla Rai in base al curriculum. Quando si è deciso di aprire questa sede in Africa ci voleva un giornalista con caratteristiche di tipo professionale e caratteriale di un certo tipo. Sono stato scelto anche per le mie esperienze di inviato di guerra. Per gestire la nuova sede serviva un giornalista capace di districarsi in mezzo a qualche difficoltà consona a un continente abbastanza complesso e complicato come questo, a problemi, per esempio, di tipo amministrativo. Avere i permessi per aprire la sede Rai in Africa non è stato facile, essendo questo un paese con una giovane burocrazia.
L’apertura della nuova sede è divenuta realtà solamente grazie alla campagna “Più notizie meno gossip” avanzata dal mondo missionario, o c’era già l’idea da parte della Rai di investire in questo progetto?
No, l’idea è nata con questa campagna. La storia nasce nel 2004 con la richiesta alla Rai di aprire una sede in Africa avanzata dal sindacato dei giornalisti della Rai, l’UsigRai e dalla Tavola per la pace in occasione della manifestazione “Africa chiama Italia”, che si svolge ogni anno a Roma. La Rai ha accettato la richiesta sotto la spinta della società civile. Non c’era quindi un progetto editoriale alla base che spingesse in questo senso. In genere una sede viene aperta per motivi politici o economici, come quella aperta in India.
I suoi collaboratori sono persone del posto?
Sì, è gente del posto. Sono persone che conoscono bene la realtà del luogo. Fino ad ora a parte il personale, consistente in una segretaria e un cameraman, tutti gli altri collaboratori sono gente del posto.
Ricevete notizie anche da missionari?
Lavoriamo in stretto contatto con loro perché dispongono di una rete sull’intero continente africano. Non c’è posto sperduto dell’Africa dove non ci sia un missionario, quindi avere il loro contributo è essenziale.
Avete contatti anche con l’agenzia di stampa Misna?
Sì, abbiamo dei contatti con Misna che sfrutta questa rete di missionari, capace di ottenere notizie in anteprima rispetto a tutti gli altri.
Il suo primo reportage è stato trasmesso in seconda serata. Prevede che in futuro si potrà vedere un servizio sull’Africa all’interno dei tg di prima serata?
I problemi sono due. Uno era l’apertura di una sede in Africa, e questo è stato risolto; il secondo è ancora presente e riguarda la collocazione di spazi televisivi per l’informazione dal continente nero. Ci sono delle logiche di mercato che vogliono che in prima serata vada lo spettacolo di richiamo, vada l’iniziativa che faccia ascolti. Questa è la nuova battaglia da combattere.
Poi possiamo discutere del fatto che, se non portiamo in prima serata l’informazione internazionale, la gente non saprà mai che cosa succede. C’era stata anche una proposta al consiglio di amministrazione della Rai di fare un programma su queste tematiche al posto di Vespa ma l’iniziativa non è stata approvata. Purtroppo l’informazione internazionale viene trattata solo negli speciali dei tg, che, per scelte di chi fa il palinsesto, va in onda in seconda o addirittura in terza serata.
Speriamo comunque che anche in Italia queste informazioni verranno trattate in prima serata. Più improbabile è che questo avvenga da parte del gruppo Mediaset che risponde a logiche puramente commerciali. Questo salto di qualità lo deve fare la Rai in quanto servizio pubblico.