L’Afghanistan tra opzione militare e nuove strategie
Emanuele Giordana - Lettera22
Basta inviare più soldati per vincere i talebani? Anche gli afgani pensano di no. Il dibattito in Italia e la scelta di come votare al rifinanziamento della missione.
L’ultimo incontro della Nato a Vilnius, accompagnato dai reiterati inviti della diplomazia americana, si è concluso con la solita richiesta: per vincere in Afghanistan ci vogliono più truppe. Incontri, lettere e dichiarazioni di questo tenore sono stati accompagnati da una serie di dossier che dicono un po’ tutti la stessa cosa: la guerra segna il passo e per vincerla servono più soldati. Solo qualche voce solitaria, come Oxfam International, una delle maggiori organizzazioni non governative del pianeta, ha cercato di spostare l’attenzione dall’opzione militare a quella civile. Cercando di spiegare che per vincere in Afghanistan la soluzione non può essere solo bellica.
A mostrare la corda, come è evidente per chiunque vada a Kabul di questi tempi, è una ricostruzione che non fa grandi passi avanti. E se la guerra è in stallo, aumenta la disillusione degli afgani verso la comunità internazionale che dal 2001, quando i talebani furono cacciati, non ha mantenuto le promesse. Certo, qualcosa è stato fatto. Anche dall’Italia. A Baghlan, un centro nel Nord del paese, abbiamo ricostruito un ospedale che serve 100mila utenti. Ma a una ventina di chilometri, nella capitale della provincia, il nosocomio è una struttura fatiscente: con lunghe code davanti a padiglioni sporchi e mal equipaggiati. Per un abitante di Baghlan contento, ce ne sono quattro a Pol-i Khumri che soffrono. E questo spiega perché, nonostante la maggioranza del paese sia ancora favorevole alla presenza delle truppe Nato/Isaf, cui contribuiamo con circa 2500 soldati, il consenso diminuisce di anno in anno. A Kabul la luce viene erogata due sole ore al giorno. L’acqua potabile arriva in una percentuale minima delle abitazioni. E in periferia è ancora peggio: per cercare l’acqua in uno dei rari pozzi di campagna, bambini e donne fanno chilometri con le taniche sulla testa.
In questo scenario bisogna chiedersi se insistere sulla sola opzione militare sia la ricetta vincente. In una recente intervista a Die Welt, il presidente Karzai ha detto chiaramente di non credere che servano più soldati stranieri. Servono competenze e formazione, ha detto. Gli afgani vogliono un loro esercito e una polizia efficiente. Ci vorrà tempo ma questa sembra loro – e non solo a Karzai – l’unico modo per vincere i talebani.
L’altro aspetto che langue riguarda il negoziato: una possibile via di pacificazione che metta da parte le armi e tenti la strada del dialogo. Possibile? Impossibile? Negata dai veti incrociati di chi crede che con i terroristi non si negozia? Difficile da dire ma bisogna prendere atto che, sotterraneamente, questa strada è praticata non solo da Karzai. Così a fondo che, quando Karzai si è accorto che i britannici stavano negoziando coi talebani la loro sopravvivenza a Musa Qala, nella provincia meridionale di Helmand dove hanno la responsabilità militare, tra Kabul e Londra son volate parole grosse. Agli afgani non piace che altri facciano al posto loro. E in un momento in cui Karzai sente che anche gli americani stanno preparando la sua successione, una montata di orgoglio nazionale attraversa il palazzo. Ma anche le misere case della popolazione.
La storia insegna che agli afgani non piacciono i protettorati. Lo sa bene il Regno unito. Lo sanno benissimo i russi. Dovremmo capirlo anche noi. Alcuni giorni fa, a fine gennaio, per la prima volta, un centinaio di organizzazioni non governative afgane, si sono trovate a convegno. Hanno condannato i bombardamenti indiscriminati, chiesto nuovi finanziamenti per la ricostruzione ma soprattutto un nuovo ruolo per la società civile. Ricostruire l’Afghanistan partendo dagli afgani. Forse non tutti sanno che, per fare un esempio, la sola agenzia americana per lo sviluppo, ha dato il 50% del suo budget afgano a cinque grosse società statunitensi che operano nel paese. In Afghanistan lo sanno.
Alla Conferenza di Kabul gli afgani hanno anche fatto proprio, integrandolo, il documento di Afgana (www.afgana.org), un’agenda di pace proposta dalla società civile italiana attraverso una piattaforma firmata da decine di organizzazioni, associazioni, accademici, singoli cittadini che vorrebbero che nel nostro paese si uscisse dalla polarizzazione “soldati si, soldati no”, portare a casa i militari o lasciarli semplicemente perché si deve. Un passo avanti importante e un segnale dal basso. Anche per il nostro parlamento. Per quello in uscita e per quello che verrà.
La sensazione è che in realtà a queste voci si faccia poca attenzione. E che il dibattito sull’Afghanistan resti prigioniero di schemi ideologici. Il voto di rifinanziamanto della missione (non solo afgana ma anche quella in Libano e negli altri teatri) è per questi giorni e sarebbe vitale che non ricadesse nello schema polarizzato e semplicistico che si risolve votando si o votando no. Un dibattito vero sul destino degli afgani, e quindi del nostro ruolo in quel paese, in Italia è ancora da venire. Abbiamo persino visto in televisione che ci sono parlamentari che confondono il Pakistan con l’Afghanistan, tanto poco ne sanno. Questo non rende onore alla politica italiana ma soprattutto non fa gli interessi degli afgani. Il vero motivo – o almeno così dovrebbe essere – per il quale i nostri soldati sono partiti verso Oriente.
Questo articolo è stato pubblicato su Lettera22 e La Nuova Sardegna
12 febbraio 2008