Kirghizistan, reportage da Osh
Lucia Sgueglia
La giornata a Osh comincia con un fetore intenso di cadaveri in decomposizione. Una sessantina di poliziotti e militi lavorano per riesumare cinque corpi in un campo.Fuori, tenute a distanza, gridano madri, sorelle e mogli: «Per l’Islam è peccato, non lo fate».
Nessuno sa dire di chi siano i corpi. «Sono arsi e irriconoscibili – spiega un uomo della scientifica – dobbiamo identificarli. Ma si tratta di kirghizi, ne siamo sicuri: hanno dato loro fuoco perché non fossero riconoscibili, poi li hanno seppelliti qui per contarli come morti loro. I media occidentali mostrano solo vittime uzbeke, noi cerchiamo centinaia di dispersi». «Sciocchezze – si adira Narghiza Rahmanova, 32 anni, un fratello morto negli scontri -. Hanno incendiato la nostra tv, la loro mostra solo ciò che vuole, traveste i morti da kirghizi, tutte le nostre case sono bruciate, non le loro. Il governo è colpevole e connivente, non ci ha difesi».
«Noi» contro «loro» è ormai un dogma nella Osh fratturata da trincee invisibili, la paura dell’altro la taglia a macchia di leopardo tra quartieri etnici tra loro incomunicabili. In questo clima il Kirghizistan ha affrontato domenica il referendum costituzionale che era questione di vita o di morte per la premier Roza Otunbayeva e il suo potere provvisorio. Se fosse fallito, come temevano in molti, si sarebbe rischiato il caso. Invece, grazie alla vittoria dei sì, il Paese diventerà la prima repubblica parlamentare dell'Asia Centrale.
La mahallah – il quartiere uzbeko – di Cheremushki è l'emblema dell'apocalisse, ogni casa, ogni negozio inceneriti all'osso. Sulla via principale in terra c'è dipinto un enorme SOS bianco: la speranza che qualcuno nel mondo si ricordi di Osh. Ma, negato l'intervento militare da Usa e Russia, anche gli aiuti internazionali arrivano col contagocce. E a distribuirli sono le autorità kirghize, denuncia Narghiza, «che ce ne rubano i due terzi».
Eppure, tra macerie e paura, i rifugiati fanno ritorno. Sono rientrati quasi tutti i 75 mila fuggiti nel vicino Uzbekistan: in fretta, troppo in fretta per Onu e Amnesty, che denunciano pressioni da parte del governo e del potere locale, che li avrebbe convinti a tornare per votare promettendo una ricostruzione rapida per evitare il fallimento del referendum, una mossa rischiosa in un quadro così instabile, con almeno 200mila displaced di cui migliaia rimasti senza casa e averi. Per portarli a votare, erano state promesse urne mobili scortate dai militari, spiegano Rana e Halil, marito e moglie, seduti tra le macerie del loro salotto a fare la guardia a quel poco che è loro rimasto, qualche stoviglia di ceramica da Samarcanda: «Ormai qui noi uzbeki valiamo zero. Ma è la nostra patria, anche se ora dicono che è il paese dei kirghizi. Viviamo qui da generazioni. Resisteremo finché potremo».
Le mahallah sono presidiate da posti di blocco, militari e polizia. Secondo gli uzbeki, proprio le forze dell’ordine hanno fiancheggiato i kirghizi negli scontri. Non solo, aggiunge Alisher, 55 anni: «Ora ci chiedono mazzette per passare e restituirci i corpi dei nostri cari, di notte rubano nelle nostre case, sparano». Human Rights Watch, che conduce un'inchiesta sui fatti dell'11 giugno, è sicura, come molti qui, che «gli aggressori da entrambe le parti erano ben armati e organizzati, preparati da tempo, non locali ma venuti dai villaggi circostanti, pagati da qualcuno».
Col passare dei giorni la dinamica dei fatti, anziché chiarirsi, si fa sempre più ingarbugliata, le due parti si accusano a vicenda di aver cominciato, diffondono storie di vittime seviziate e sgozzate, di cecchini sulle montagne. Nel Ferghana le tensioni vanno oltre le divisioni etniche: rivalità economiche, politiche, mafiose, religiose. Il sindaco di Osh progettava villaggi turistici nelle aree incendiate; un signorotto uzbeko invocava autonomia per i suoi, li avrebbe armati a Jalalabad alla vigilia del pogrom; ogni potente locale ha un piccolo esercito personale, da 50 a 500 uomini in divisa, difficile distinguerli dai militari veri. Al monopolio del commercio da parte degli uzbeki corrispondono i posti pubblici occupati dai kirghizi.
Ma dove sono finiti i 300 mila sfollati? Non nella finta tendopoli allestita come show per le tv, popolata di profughi kirghizi che non sanno spiegare perché si trovano qui. In centinaia dormono a Suratash, grosso villaggio a 10 km da Osh, cento per cento uzbeko, ospiti delle famiglie locali, ammassati a decine in ogni casa. «A Osh non torniamo, solo qui ci sentiamo sicuri», dice Rukia, 75 anni, accovacciata nella veranda ombrosa di una parente con altre venti donne.
Sotto gli alberi nel cortile della scuola decine di donne fanno la fila per pannolini, latte e biscotti per bambini: aiuti Usa arrivati via Tashkent. Zhamila, che ha perso marito e figlio, è tornata apposta per votare: «Nel governo non ci sono uzbeki. Ma senza referendum finisce che ci cacciano tutti». Otunbayeva dà la colpa a «forze esterne», ma per Faruk, 23 anni, «è una scusa per le sue debolezze. Sulle nostre case bruciate adesso hanno scritto Vendesi. Che futuro ci aspetta?». Indecisi sul voto sono persino i kirghizi, in questa zona tutti pro Bakiev, il presidente che si è dimesso in aprile e vive in esilio in Bielorussia.
Alla vigilia del referendum la premier ad interim aveva lanciato dalla tv un appello agli abitanti di Osh e Jalalabad, seguito da un'ora di spot in cui le diverse etnie del Paese si stringono la mano: «Vi prego, votate, è indispensabile per riportare l'ordine e costruire uno Stato. Dobbiamo andare avanti. Per tutti noi sarà come guardarci in uno specchio». L’hanno ascoltata. Ma la Osh meticcia dai giardini di rose abitata da russi, uiguri, tatari come Azad, autista nato qui che prepara la fuga, è sparita: «Purtroppo le violenze etniche non finiranno qui, le cose peggioreranno, troppa gente ha perso i propri cari, non si può più vivere qui, me ne vado in Russia».
Fonte: Lettera22 e La Stampa
30 giugno 2010