Khaled e l’Italia degli sbarchi
Stefano Pasta - famigliacristiana.it
Sono oltre 17 mila i migranti sbarcate sulle nostre coste, come ha spiegato il ministro Cancellieri. Ecco la storia di uno di loro.
Sono 17.365 gli immigrati sbarcati sulle coste italiane in dodici mesi, tra il 1 agosto 2011 e il 31 luglio di quest’anno. In testa alle prime dieci nazionalità di provenienza, c’è il Marocco. Lo ha detto il ministro dell'Interno, Annamaria Cancellieri, nel tradizionale incontro di Ferragosto con i giornalisti. Si tratta di una drastica riduzione rispetto lo scorso anno, quando, nei soli primi sei mesi del 2011, erano sbarcati ben 24.769 migranti provenienti dalla Tunisia e 23.267 dalla Libia di Ghedaffi. I numeri del Viminale sono uomini, donne, alle volte bambini, che vedono nel “viaggio della morte” l’unico modo per raggiungere l’Italia e la “Fortezza Europa”.
“L’Italia? Una coperta termica luccicante, due bottigliette d’acqua e dei biscotti secchi”. Queste sono le prime immagini del Bel Paese per Khaled, 26 anni, sbarcato a Lampedusa il 10 settembre scorso. Due anni, tre mesi e quattordici giorni per arrivare in Europa dalla baraccopoli di Amukoko, a Lagos, capitale della Nigeria. Khaled oggi ripete: “Sono partito da casa mia nel 2009 e sono arrivato in Italia nel 2011. Non so il giorno in cui sono nato, ma mi ricordo che sono arrivato il 10 settembre”. Vista da Lagos, l’Italia ha le note di “Volare”, i piedi di Roberto Baggio e la forma di una clementina. Khaled è cresciuto con il mito del calciatore italiano e in un locale vicino a casa sua trasmettevano almeno dieci volte al giorno la canzone di Modugno. In più, le clementine e le arance di Rosarno, o i pomodori di Castelvolturno, sono visti come l’occasione per un futuro migliore. Proprio le terre in cui i braccianti stagionali impiegati in nero vivono spesso come “nuovi schiavi”.
Ma, a Lagos, i soldi mandati dalle campagne del Sud Italia diventano la prova che il sogno europeo funziona. “Un mio vicino, con i soldi guadagnati dallo zio e dal padre in Italia, ha potuto aprire un negozio di stoffe nel nostro quartiere”, spiega con semplicità Khaled. Vista dal Mediterraneo, invece, l’Italia ha la forma di un puntino, di una striscia che appare e scompare. “Non sai mai se l’hai vista veramente o solo immaginata”. Khaled è partito dalle coste libiche su un vecchio peschereccio bianco di quindici metri, che normalmente può portare dieci, dodici persone. Loro erano in cinquantasette, tra cui due bambini e tre adolescenti. “Il motore riempiva ogni angolo della barca di un odore schifoso di nafta e di un fumo grasso che il vento non riusciva a mandare via”. Molti vomitavano per il mal di mare. Soprattutto, non era praticamente possibile fare un passo, cambiare posizione. “C'era qualche tanica di benzina sotto i piedi, stavamo appiccicati, incastrati, accovacciati, qualcuno in ginocchio, altri in piedi tenendosi alle spalle di chi stava sotto”.
Continua Khaled: “All’inizio è facile, ti dici: ‘Ma ci siamo, è l'ultimo viaggio, sono sopravvissuto al deserto e alla Libia, in fondo a quel mare, da qualche parte, c'è l'Europa’. Alla fine del terzo giorno, con il mare che sembra sempre mosso, non ce la fai più. Le onde ci sbattevano gli uni contro gli altri, i bambini piangevano, una donna era svenuta, il sole della giornata aveva stordito tutti. Chi si era conquistato un posto al coperto soffriva dell’odore nauseante della nafta e del vomito, chi era all’aperto aveva già la pelle scorticata dal sole e dalla salsedine”. “All’inizio ci si vergogna per i bisogni, cerchi di non farti notare, anche se è impossibile. Poi, man mano che cresce l’ansia, non ti vergogni più, hai paura di altro. Chi sta male, chi sviene dal caldo, i bisogni se li fa anche addosso”. “Certe notti sembrano non finire mai: le notti dei vecchi, le notti dei malati, degli ospedali, le notti della paura, le notti del mare”.
La terza notte di Khaled e dei suoi compagni fu come molte di queste notti. Forse l’ultima, infinita, forse la prima di un’altra vita. Passò come una lunga tortura in cui non era possibile dormire. Qualcuno di tanto in tanto crollava sugli altri, ma era come una breve perdita di conoscenza: subito lo risvegliavano le proteste dei vicini. Da ogni angolo del peschereccio si alzava un misto di imprecazioni roche, preghiere, pianti e lamenti. Nessuno lo diceva, ma tutti pensavano all'acqua che stava finendo. Nessuno sapeva cosa fare. “Non ci volevamo credere, ma dai rumori del motore e dalla rabbia degli scafisti avevamo capito che anche loro non sapevano cosa fare”.
La quarta notte spuntano delle luci in fondo, poi se ne vanno, o forse la barca ha invertito la rotta. Era una nave? Era un paese? Era “Lampa Lampa”? Così chiamano Lampedusa sulle coste nordafricane. “Cominci a sentirti impotente, sei un naufrago. E ti viene in mente chi è partito e sai che non ce l’ha fatta. Come Lucky e Favor, due fratellini morti di sete e gettati in mare nel 2009, di cui anche in Nigeria si era parlato. O chi hai conosciuto nel grande viaggio e non sai più dov’è. Come il ghanese Kobby, lasciato nel deserto del Tenerè, o il mio connazionale John, che era rinchiuso nel carcere libico di Zanzo”. “La fame, la sete, la stanchezza, lo smarrimento ci avevano reso come pazzi”. Nel pomeriggio del quinto giorno, fu chiaro che l’Italia era in vista, una strisca scura all’orizzonte, non lontana. “Ormai senza benzina, quasi tutti pensavamo di morire così, in vista dell’Italia senza poterci arrivare”.
Alla fine della giornata, finalmente, i soccorsi della Marina militare e lo sbarco a Lampedusa. I ricordi di Khaled di questi momenti sono confusi, ma ha nelle orecchie l’urlo straziante di una donna ghanese quando le passarono una busta con due bottigliette d‘acqua e un pacco di biscotti: “Beve assetata e dopo ingoia un biscotto, ma urla e sputa tutto. Anche a me succedeva: il cibo taglia la gola, non passa, lo stomaco lo vuole ma il dolore è più forte, è come una lama, non puoi mangiare più niente”. Khaled, ora, si trova a Milano, ospite di connazionali. Vista da qui, l’Italia ha un sapore amaro. “Senza documenti, è difficile fare ogni cosa”. Khaled è un “clandestino”. Come il 50% degli emigrati italiani che tra il 1945 e il 1960 entravano in Francia, attraversando le Alpi e rischiando la vita. O come il 90% dei familiari italiani che poi li raggiungevano. Quando l’Europa non conosceva ancora la grande immigrazione extracomunitaria e l’Italia era ancora terra di emigrazione.
Fonte: www.famigliacristiana.it
16 Agosto 2012