Italia/Libia, quarant’anni di compromessi
Eric Salerno
Schizzofrenico lui, schizofrenici anche noi ma sempre “amici”: il petrolio, si sa, ubriaca chi lo produce e chi ne ha bisogno. Gli eccessi dei primi vengono perdonati in nome della realpolitik salvo quando il gioco, come oggi, diventa improponibile. La storia degli ultimi quattro decenni.
Quarantadue anni di compromessi, spesso vergognosi, patti segreti e anche alleanze e amicizie surreali caratterizzano l’altalena dei rapporti tra la Libia di Gheddafi e l’Italia. Enrico Mattei non visse abbastanza per vedere il giovane capitano libico assumere il potere, ma i discepoli del presidente terzomondista dell’Eni, all’epoca una specie di stato nello stato, furono i primi a garantire per lui. E a convincere Aldo Moro a non arrabbiarsi troppo quando Gheddafi cacciò l’intera comunità italiana di venticinquemila persone sequestrando i loro beni. «Non vogliamo i colonialisti», disse. «Gli altri sono i benvenuti».
Erano anni in cui Rashid Kikhia, ex ministro degli Esteri e uno degli antagonisti più accesi del giovane ufficiale, disse: «Gheddafi può soffocare l’opposizione in Libia perché la gente è con lui».
Non molti anni dopo, diciasettemila italiani “buoni” lavoravano nella Giamahiria e l’oro nero arrivava da noi in cambio di armi, aerei (che la Libia ha usato nelle sue guerre africane), mobili dalla Brianza, macchinari per le prime industrie che troppo spesso risultavano antiquate o inadatte. Ma succedeva anche dell’altro. I libici sbarcarono a Pantelleria nel 1972 con le borse pieni di soldi. Comprarono, attraverso un paio di intermediari locali, un bel pezzo dell’isola. L’operazione rientrò per l’intervento dei servizi segreti della Nato. Dicevano che c’era un disegno sospetto nell’attivismo immobiliare del leader. Girava una battuta negli anni settanta: “La Sicilia è l’unico paese arabo a non aver dichiarato guerra a Israele”. E Gheddafi sembrava crederci in qualche modo quando, dopo l’acquisto di quel pezzo di Pantelleria, ordinò di finanziare una moschea a Catania, un corso di studio all’Università di Palermo, due canali tivù, un giornale “Sicilia oggi” e grandi feste celebrative del decennale della sua rivoluzione. Gli dava una mano uno stravagante avvocato, Michele Papa, che nel 1973, con due uomini politici locali, fondò l’associazione siculo-araba. Oltre cinquecentomila dollari furono investiti nella scalata economica-culturale della Sicilia. Gheddafi era pronto a spendere di più: con le sue vedette “made in Italy” infastidiva i pescatori di Mazara del Vallo per convincerli a cedere l’industria alla Libia.
Roma e non l’isola, però, era il luogo più frequentato dal numero due del regime, Abdelsalam Jallud. Comprava scarpe e vestiti a Via Veneto, alloggiava all’Hilton e socializzava con i potenti dell’economia e della politica. Nel 1976, l’ingresso della Libia nella Fiat (per il dieci per cento) sconcertò gli italiani ma il vero peso del investimento divenne evidente soltanto quando Agnelli, su richiesta ufficiale di Gheddafi, licenziò il direttore del quotidiano La Stampa Arrigo Levi, reo di essere ebreo e sostenitore d’Israele.
I primi anni ottanta erano disastrosi per i rapporti bilaterali. A Roma, agenti libici uccidevano per strada oppositori del regime e crescevano le accuse alla Libia di aiutare il terrorismo internazionale. E così mentre i partiti politici si dividevano, spesso trasversalmente, sull’opportunità o meno di frequentare Gheddafi, i servizi segreti intrattenevano i veri rapporti con Tripoli, salvavano il leader almeno due volte da complotti e attentati alla sua vita, e garantivano le commesse militari. Cercarono, anche, di limitare i danni, quando armi di provenienza libica in mano a italiani confermarono il coinvolgimento di Tripoli nel terrorismo nostrano. Gheddafi, senza andare troppo per il sottile, credeva in tutti i “combattenti per la libertà”.
L’Italia meridionale tornò con un botto nelle vicende bilaterali quando nel 1986 l’aviazione americana bombardò Tripoli e due esplosioni al largo di Lampedusa furono attribuite a missili Scud lanciati da Gheddafi per colpire la stazione radio della Nato. Non poteva avercela con l’Italia – Roma, si è scoperto recentemente, lo aveva avvertito in anticipo dell’arrivo dei caccia Usa – ma tensione, quanto meno in pubblico, e convenienza indusse la Fiat a ricomprarsi le azioni detenute dalla finanziaria libica Lafico. Non c’era più posto per Saadi, il figlio calciatore di Gheddafi, nel consiglio d’amministrazione della Juventus.
Sullo sfondo di tutto questo, la questione del risarcimento per i crimini del colonialismo italiano. La richiesta saltava fuori quasi sempre nei colloqui tra i leader libico e i nostri ministri che lo andavano a trovare. Giulio Andreotti promise un ospedale, Gheddafi sembrò soddisfatto ma poi contrasti a Roma bloccarono tutto e si dovette attendere la trattativa avviata da Prodi, Dini e D’Alema e chiusa da Berlusconi per la firma del trattato d’amicizia e le scuse della Repubblica per le colpe del Regno e del fascismo.
Fonte: Lettera22, Il Messaggero
27 febbraio 2011