Israele espelle i figli degli immigrati
Antonio Marafioti
Il governo di Tel Aviv riforma dei criteri di residenza per gli immigrati e 700 bambini rischiano di dover lasciare le famiglie-
"Tutti sentiamo e capiamo il cuore dei bambini. Ma d'altra parte bisogna assicurare il carattere ebraico dello Stato d'Israele". Nel tipico stile che lo contraddistingue, quello che alterna l'umano al necessario, il premier Benjamin Netanyahu liquida così il commento sulla decisione del governo di Tel Aviv di varare una nuova legislazione sui criteri di residenza per gli immigrati che, nei prossimi giorni, darà avvio alle deportazioni dei figli, 700 su oltre 1200, dei lavoratori immigrati in terra santa.
Anche i regolari. Fra coloro che rischiano di dover lasciare Israele "subito dopo la chiusura delle scuole", hanno comunicato dal Ministero degli Interni, ci sono anche coloro i quali sono nati all'interno dei confini dello Stato, parlano correntemente la lingua ebraica e non conoscono altra realtà, altri posti e altri costumi che quelli israeliani. I requisiti per la permanenza vicino ai genitori, solo quelli con regolare permesso di lavoro, sono quelli di conoscere la lingua, essere iscritti a scuola e risiedere dentro Israele da almeno cinque anni. Questo è quanto comunicato dal ministro degli Interni, e numero uno del partito ultra-ortodosso Shas, Eli Yishai che nelle ultime ore è finito al centro di un dibattito con alcuni parlamentari contrari al provvedimento. E fra i detrattori delle politiche anti-immigrazione non ci sono solo deputati, e perfino qualche funzionario governativo, ma anche, soprattutto, i gruppi di difesa per i bambini fra i quali Israeli Child. Dopo aver appreso la notizia del cambio dei criteri di residenza Ilan Rotem, presidentessa della Ong nazionale, ha sostenuto: "Stiamo parlando di bambini qui. Sono figli di persone venute legalmente in Israele per lavorare e che sono qui per arare i nostri campi, costruire le nostre case e prendersi cura dei nostri anziani. È giusto che le loro famiglie li seguano". In risposta alle teorie del premier Netanyahu sulla salvaguardia del Paese Rotem ha chiosato: "È la deportazione di bambini innocenti che minaccia il carattere ebraico di Israele. L'obbligo di agire con gentilezza e compassione nei confronti degli stranieri è il comandamento ripetuto più frequentemente nella Torà".
Paura. I regolamenti in materia d'immigrazione sono estremamente rigidi e vietano a coloro che arrivano per lavorare di portarsi al seguito le proprie famiglie e, perfino, di fidanzarsi. Perché chi arriva in Israele per lavorare deve solo e unicamente lavorare senza ulteriori distrazioni. A nulla serve ricordare ai falchi del Likud che lo Stato ha ratificato nel 1990 un trattato delle Nazioni Unite sui diritti dei bambini in virtù del quale dev'essere garantito anche ai giovanissimi che vivono illegalmente all'estero di iscriversi a scuola.
Il governo ha detto no e ora partirà la caccia all'irregolare guidata dalla Oz, l'unità speciale della polizia israeliana incaricata di rintracciare e deportare tutti i clandestini entro il 2013. "Invece di cercare i migliori campi estivi a cui iscriversi – ha concluso Rotem – i bambini saranno costretti a cercare i migliori luoghi in cui nascondersi". Durante una manifestazione di protesta a Gerusalemme il quotidiano nazionale Haaretz ha intervistato un Aman Arpon, studente di otto anni che rischia di essere rimandato nel paese di origine dei suoi genitori, le Filippine.
Amam, che è nato in Israele, ha raccontato: "Hanno espulso mio padre sette anni fa e ora vivo qui con mia madre e qui vogliamo rimanere perché queste è la mia casa. La mamma – ha rivelato il bambino – mi ha detto di tornare a casa subito dopo la scuola. Anche lei quando finisce di lavorare corre da me. È già stata arrestata una volta ed è stata rilasciata solo quando hanno capito di aver arrestato una mamma. Da allora ha molta paura". Come ne ha anche Eustace Uzoma, una bambina di origini Nigeriane nata e cresciuta a Tel Aviv. Eustace è in tutto e per tutto cittadina israeliana ma per il governo potrebbe essere rimpatriata, in una patria che non è la sua, perché i suoi genitori ancora non hanno un permesso di soggiorno nonostante vivano in Israele da ben 14 anni. La Oz è pronta ad arrestare tutta la famiglia Uzoma e a spedirla in un paese ormai sconosciuto.
Il governo di Tel Aviv iniziò le politiche di assunzione di manodopera straniera nel 1987 dopo lo scoppio della prima Intifada. Da allora fu più difficoltoso, in seguito alla chiusura delle frontiere, dare lavoro ai palestinesi che vennero rimpiazzati con i tailandesi, impiegati nel settore agricolo, e i filippini incaricati di badare agli anziani.
Fonte: http://www.peacereporter.it
4 Agosto 2010