Israele e il suo fattore "C"
Paola Caridi - invisiblearabs.com
Il rischio di una nuova intifada in Cisgiordania. Gli attacchi ai palestinesi e i casi di "disturbo della pace". Il numero dei coloni negli insediamenti israeliani è in rapida ascesa. Il caso Sternhell.
E’ stata l’intelligence israeliana a far filtrare i veri timori di queste ultime settimane, per la tenuta della Cisgiordania. Che a rendere del tutto instabile il pezzo di Palestina controllato dal governo di Ramallah sia il “fattore C”, C come coloni. Se non c’è vero terreno fecondo per lo scoppio di una terza intifada, hanno detto fonti della sicurezza a Haaretz lo scorso 29 settembre, “la continua tensione con i coloni – e certamente un attacco terroristico di matrice ebraica contro gli arabi in Cisgiordania – potrebbe fornire la miccia”. Così come la passeggiata di Ariel Sharon sulla Spianata delle Moschee fornì la spoletta per lo scoppio della seconda intifada. E d’altro canto, visto dalla prospettiva palestinese, i coloni sono diventati il vero bersaglio degli ultimi episodi violenti, dall’uccisione degli studenti della yeshiva a Gerusalemme, la scorsa primavera, sino ai lanci continui di sassi che ormai segnano le notti, lungo le strade della Cisgiordania.
La rivolta dei coloni, insomma, preoccupa le forze dell’ordine israeliane. Che dietro le quinte parlano da mesi di un notevole aumento dei casi di “disturbo della pace”, secondo la definizione usata nelle statistiche ufficiali per rubricare gli eventi di questo tipo. 429 episodi registrati nei primi sei mesi di quest’anno, rispetto ai 551 dell’intero 2007. Con una impennata nella scorsa estate, quando in un solo mese sono rimasti feriti dalla violenza dei coloni 35 palestinesi, secondo quanto dice l’ultimo rapporto dell’Ocha, l’ufficio per gli affari umanitari dell’Onu, fonte insostituibile per una descrizione capillare della situazione in Cisgiordania. Campi bruciati, raid nei villaggi, case danneggiate oppure occupate, danni a moschee, ferimenti, molestie per strade, e tanti sassi contro passanti e macchine: questo il catalogo delle violenze per mano dei coloni, alle quali occorre aggiungere, nelle ultime settimane, i raid compiuti in particolare nei villaggi palestinesi attorno a Nablus, e vicino alle colonie israeliane più radicali.
La situazione, però, sembra andare oltre gli attacchi ai palestinesi. E c’è chi, anche all’interno del mondo dei coloni, parla di una precisa tattica usata negli ultimi mesi per evitare che gli avamposti illegali siano rimossi dalle autorità. Allora, per distogliere l’attenzione, si bruciano terreni da un’altra parte, o si dà fuoco ai copertoni per bloccare una strada. Tecniche da intifada, insomma, per evitare una riedizione del disimpegno da Gaza del 2005, e per rinviare quanto più possibile la rimozione dei piccoli insediamenti che non saranno messi sulla (possibile) mappa di un accordo tra israeliani e palestinesi, da raggiungere entro gli ultimi giorni del mandato di George W. Bush.
Il “fattore C”, dunque, è ormai parte integrante del dibattito politico israeliano. E non è certo una novità, perché non è la prima volta che lo Stato ebraico deve tenere in debito conto un’impresa, quella delle colonie, sulla quale ha investito decenni di scelte politiche ed economiche. Le cifre, d’altro canto, parlano chiaro. Le ha fornite lo stesso Pinchas Wallerstein, il direttore del potente Yesha Council, la più importante organizzazione dei coloni israeliani nei Territori Palestinesi Occupati. Secondo gli ultimi dati ufficiali rilasciati come d’abitudine prima del capodanno ebraico, i coloni in Cisgiordania sono ora 300mila.
Ben 50mila in più, equivalente a un sostanzioso 20% di aumento, rispetto a quando Ehud Olmert, all’inizio del 2006, divenne primo ministro d’Israele, per sostituire Ariel Sharon colpito da un ictus.
Il numero dei coloni, dunque, è in rapida ascesa anche per le autorità israeliane, e non solo per il governo palestinese di Ramallah, che continua a mostrare un altrettanto crescente disagio sulla questione degli insediamenti. E niente, nelle decisioni del governo israeliano degli ultimi tempi, è stato fatto per invertire la tendenza, che invece vede un fervore evidente nei lavori di ampliamento di colonie popolose, e determinanti dal punto di vista geopolitico, come Maaleh Adumim, sulla direttrice Gerusalemme-Gerico, e Har Homa, esattamente in direzione opposta, sulla strada per Betlemme.
Se l’impatto numerico dei coloni è uno dei fattori primi nelle trattative tra israeliani e palestinesi, l’altro problema – che appare sempre di più nella sua ampiezza – è la presenza radicale all’interno del variegato pianeta dei coloni. Presenza radicale sempre più pesante ed evidente. Pesante sia dal punto di vista quantitativo sia da quello qualitativo, con i nuovi immigrati andati a rinfoltire il numero dei coloni, e spesso portatori di posizioni estreme. Evidente negli episodi di violenza ormai quotidiana in Cisgiordania. E nello scontro, di nuovo venuto alla luce, tra la destra radicale e il fronte pacifista, che ebbe nell’assassinio politico di Ytzhak Rabin del 1995 il suo evento più tragico e foriero di conseguenze.
Ora, per la prima volta da allora, si è verificato alla fine di settembre un attentato (per fortuna fallito) contro un esponente del settore pacifista. Non un politico, bensì un intellettuale, un professore universitario ormai di una certa età, come Zeev Sternhell. La bomba piazzata all’ingresso della sua casetta, in un tranquillo quartiere piccolo-borghese di Gerusalemme, è stata come un colpo di frusta per l’opinione pubblica israeliana, che non aveva percepito quanto si stesse facendo ampio il bacino di utenza della destra radicale.
Il caso Sternhell, invece, ha riportato alla luce lo scontro sempre in atto tra i coloni e i settori pacifisti, dal classico Peace Now sino alle nuove associazioni israeliane che fanno lavoro sul campo all’interno della Cisgiordania (da Breaking the Silence e Tayyush, in diversi modi specializzate su Hebron, ai gruppi che protestano per la costruzione del Muro). Gli scontri fisici ci sono, soprattutto in zone delicate come la città vecchia di Hebron, ma non si era ancora arrivati ai poster con la taglia di oltre un milione di shekel per l’assassinio di un membro di Peace Now. Che si tratti o meno di un fenomeno conchiuso a gruppuscoli dell’estrema destra dei coloni, è certo che il messaggio lanciato in questi ultimi giorni è inquietante. Tanto inquietante da dover mettere la politica israeliana di fronte a un bivio, dopo tanti anni di ambiguità sul sostegno all’impresa dei coloni: se accettare le pressioni dei coloni, da quelli trattativisti sino alle frange estreme, oppure se porre un freno strategico all’espansione degli insediamenti e un freno militare alla violenza dei gruppi radicali di coloni, nei confronti dei quali – sostiene la stampa israeliana – l’esercito presente in Cisgiordania non ha saputo reagire.
Paola Caridi
Fonte: www.lettera22.it
3 ottobre 2008