Israele è ormai in un vicolo cieco
Zvi Shuldiner
Quella che finora era una formula vaga dopo il discorso di Obama è diventata una dichiarazione precisa: la pace sarà possibile attraverso il ritorno alle frontiere del ’67, magari con piccole modifiche che riflettano i cambiamenti demografici – vale a dire le colonie israeliane – compensate da qualche scambio di territorio.
Il premier israeliano Benjamin Netaniahu ha chiarito che il suo governo non andrà a una pace vera nel prossimo futuro. Lo ha chiarito a Washington, incontrando il presidente Barack Obama che solo il giorno prima aveva cercato di rispolverare la sua dote di grande oratore. La retorica del Cairo di due anni fa, quella del presidente premio Nobel per la pace, è ormai un po' ossidata, ma il discorso di Obama avrà dato un forte contributo a quanti vogliono impedire che in settembre l'Onu riconosca uno stato palestinese. Quanto a Netaniahu, due anni fa si era rivenduto un vago riconoscimento della formula dei «due stati» – ma da allora si è scordato cosa siano dei veri negoziati.
Obama continua a parlare di democrazia come se gli americani non avessero sempre appoggiato i regimi più spuri (e non solo in Medio Oriente) a condizione che servano gli interessi americani. Il presidente Usa ha enfatizzato l'importanza della democrazia e della non violenza. La non violenza giustamente idealizzata da Obama ha portato a cambiamenti in Tunisia e in Egitto; Obama chiama all'ordine il presidente Bashar al Assad in Siria e critica la repressione in Iran – intanto l'esercito americano insieme alla Nato «pacifica» l'Iraq e l'Afghanistan, liquida Osama bin Laden, e continua ad appoggiare senza critiche l'Arabia saudita e tanti altri. Non solo: se i popoli del Medio Oriente seguono le vie diplomatiche, gli Usa sono disposti ad aiutarli – cosa che di sicuro aiuterà anche a consolidare le aziende e i capitali americani.
Ma veniamo alla pace israelo-palestinese. Quello che finora era formula vaga diventa ora una dichiarazione precisa: la pace sarà possibile attraverso il ritorno alle frontiere del '67, magari con piccole modifiche che riflettano i cambiamenti demografici – vale a dire le colonie israeliane – compensate da qualche scambio di territorio.
Questo è importante, tanto più che poche ore dopo la cancelliera tedesca Angela Merkel ha espresso il suo appoggio alla formula territoriale, senza dubbio concordata in precedenza con la Russia e l'Unione Europea. Questa formula include tacitamente l'accettazione degli insediamenti israeliani nei territori occupati palestinesi, che passeranno a essere parte di Israele in cambio di una superfice eguale che passerà allo stato palestinese.
La retorica di Obama però non può nascondere tre punti. Il primo è che il presidente americano frena il progetto palestinese di cercare il riconoscimento delle Nazioni unite a uno stato indipendente, in settembre (anche se questo piano è discutibile e anche tra i palestinesi c'è chi vi si oppone: ma il presidente americano non ha ritenuto necessario concedere nulla al presidente palestinese Abu Mazen). Il secondo è che Obama parla di uno stato palestinese demilitarizzato, come se solo Israele fosse in pericolo e avesse il diritto all'autodifesa. Terzo, Obama riprende in pieno la retorica israeliana quanto a Hamas. È vero: Hamas è una forza controversa, non riconosce Israele e promette di restare sulle sue posizioni, inoltre usa il terrore verso la popolazione civile e anche per un egoistico interesse personale (lavoro in una zona che si trova spesso sotto una pioggia di missili) detesto la sua politica. Ma proprio come negli anni '70 – quando era proibito parlare con l'Olp – dobbiamo ricordare a tutti, Obama incluso, che la pace si fa con il nemico. E l'accordo interpalestinese che ha portato a una (ancor fragile) riconciliazione tra Hamas e Fatah è la precondizione per un reale negoziato di pace. Chi cerca la pace solo con i collaboratori inganna solo se stesso.
Già prima di arrivare a Washington il premier israeliano si era premurato di criticare duramente il discorso di Obama – la stampa israeliana sottolinea come Netanyahu commetta spesso errori tattici madornali. Quando poi, dopo il lungo colloquio a tu per tu, i due hanno incontrato la stampa, il premier di Israele non ha lasciato dubbi: il suo governo si preocupa solo della proprio sopravvivenza, cerca essenzialmente l'appoggio della destra radicale e dei circoli fondamentalisti della nazione.
Israele non può tornare alle frontiere del '67, dice il premier. Inoltre dovrà mantenere una parte della Bekaa, a nord, la striscia che corre lungo il fiume Giordano e servirebbe come frontiera di sicurezza – per difendersi dalla Giordania e dall'Iraq, dovessero mai tornare ai vecchi costumi militari. Inoltre, vuole il riconoscimento di Israele come stato ebraico – concezione confessionale che «dimentica» quasi un quarto della popolazione israeliana e non era neppure parte del sionismo ortodosso, che nella sua dichiarazione di indipendenza prometteva eguaglianza a tutti, di qualunque religione o identità nazionale. Hamas? È come al Qaeda per il premier israeliano, il quale dimentica i frequenti massacri compiuti dalle forze israeliane sulla popolazione civile palestinese. I rifugiati palestinesi poi sono fonte di ulteriore ostacolo, per il premier israeliano.
Insomma: le parole di Netanyahu si possono riassumere così: il suo governo non ha un reale interesse alla pace. E le belle parole di Obama, incluso il punto nuovo e positivo del richiamo alle frontiere del '67, resteranno un puro esercizio retorico se la comunità internazionale non unirà gli sforzi per far uscire Israele dal suo vicolo cieco.
Fonte: Il Manifesto
23 maggio 2011