“Iraq andata e ritorno” di Toni Fontana


La redazione


Ad un mese dalla scomparsa di Toni Fontana, la Tavola della pace lo vuole ricordare con le sue parole. Parole che raccontano i suoi tredici giorni prigioniero degli iracheni nel 2003.


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"Iraq andata e ritorno" di Toni Fontana

Palestine, è stato davvero un incidente? Ho fatto il servizio militare nei carristi, sui carri Leopard. In addestramento sparavamo a sagome distanti 2000 metri sbagliando il centro pieno di circa 1 metro. Ci venne spiegato che per snidare dei cecchini occorreva utilizzare una granata o un proiettile incendiario. Ora la domanda: dalle immagini che ho visto in tv mi è sembrato che il carro Abraham che ha colpito il Palestine abbia sbagliato mira (da circa 500 metri, cosa praticamente impossibile!!) e abbia utilizzato un proiettile anticarro (che infatti non è esploso all'impatto).

Due errori che non mi spiego. Lei come se li spiega? (Paolo Nadotti)

Toni Fontana: Le posso dire quello che ho visto. Quel giorno (ero ancora prigioniero) sono andato sul tetto dell’Hotel Palestine per vedere Baghdad dall’alto, c’erano molti colleghi con le telecamere, poi sono andato nella camera (1427, quattordicesimo piano) di Enrico Bellano, operatore del Tg1 e con la sua telecamera ho inquadrato con lo zoom il carro armato iracheno e ho visto che aveva la canna puntata contro l’albergo, pochi minuti dopo dalla mia stanza al 13 piano ho sentito un botto terribile e poi ho visto mentre portavano via i colleghi feriti orribilmente (e poi morti). Quel giorno era in corso la battaglia sul ponte al jumaiyria (la repubblica) gli americani tentavano di affondare verso la parte sud di Baghdad. Tutte le telecamere (decine) erano puntate sui carri armati. E possibile che un carrista americano abbia perso la «pazienza» e abbia sparato contro le postazioni televisive o che deliberatamente sia stato impartito l’ordine di intimorire la stampa. Non ho le prove di quanto sostengo ma tutti i carristi americani con i quali ho parlato successivamente hanno detto che un tank può «colpire una margherita a quattro chilometri» e dunque non si è trattato di un caso… Perché gli iracheni resistevano? Ho seguito, come tutti, la guerra in Iraq attraverso la tv, la radio (e anche, quando c'erano, attraverso i tuoi resoconti in mp3 sul sito de l'Unità). Una cosa mi ha colpito, nei primi giorni di guerra. La resistenza dell'esercito iracheno fedele a Saddam.

Come si spiega che un esercito – decisamente male in arnese – decidesse di morire per un dittatore? (Plinsky)

Toni Fontana: Nel 1991 ho seguito la guerra del Golfo e ho visto migliaia di soldati iracheni prigionieri. La resistenza durò meno di tre giorni, ma allora si trattava, per gli iracheni, di difendere un territorio occupato. In questa guerra hanno invece difeso il loro paese e le motivazioni erano molto più forti. E tuttavia gli americani posseggono ormai tecnologie militari infinitamente più sofisticate rispetto anche a quelle che gli europei sono in grado di utilizzare. Ricordo che ad un certo punto i caccia americani volavano bassissimi su Baghdad, la contraerea ha cessato ogni resistenza, l’esercito regolare, composto da soldati demotivati e affamati non ha resistito un granché, i reparti scelti hanno dato battaglia, ma il divario tecnologico si è rivelato decisivo. La guerra, sul piano tecnico, non poteva che concludersi con la vittoria delle truppe di invasione. L’attacco su Baghdad si è rivelato decisivo. I conti col passato Qual è l'atteggiamento degli iracheni verso gli uomini che sono appartenuti al regime di Saddam, per esempio verso quei poliziotti che hanno ora il compito di tutelare l'ordine, ma che probabilmente fino a un mese fa torturavano i malcapitati.

Ed inoltre: Si può andare avanti senza fare i conti col passato? Senza una condanna totale dei crimini contro l'umanità? (Benedetta)

Toni Fontana: Sono partito da Baghdad sabato scorso, gli spioni che erano diventati i miei carcerieri, i funzionari del partito si sono dileguati, sono spariti. E’ probabile, anzi certo, che il trasformismo metterà la sue radici anche a Baghdad, gli americani saranno costretti a rivolgersi ai funzionari del partito Baath per riavviare la macchina statale e i servizi. Non credo che i torturatori pagheranno e non credo che vi sarà giustizia. Vi saranno e vi sono vendette e regolamenti di conti, ma gli uomini della polizia segreta usciranno ben presto dalla clandestinità e sfoggeranno una camicia nuova. I veri problemi per l’Iraq iniziano ora.

Che speranze per la democrazia? Aver devastato un paese, creando migliaia di lutti e terrore avendo però cacciato un dittatore, contribuirà alla nascita di una democrazia sana e come va dicendo Bush «modello per gli altri paesi arabi»? (Carlo)

Toni Fontana: Posso solo dirti che appartengo alla grande coalizione composta da uomini e donne della sinistra che erano e sono contrarie a questa guerra che per ora non ha portato in Iraq né democrazia né libertà, ma solo caos, anarchia, molta disperazione e qualche speranza. Ho visto cadere la statua di Saddam trascinata da un carro-gru americano, ho visto finire così una dittatura che si è macchiata di gravi delitti. Ora si tratta di guardare avanti, di sostenere tutti gli sforzi e le iniziative lanciate per portare aiuto al popolo iracheno. Ho visto tanta fame, tanti lutti. Ora occorre essere ottimisti e credere che dalle macerie dei bombardamenti possa nascere un nuovo assetto che garantisca diritti e libertà finora negati. Ma abbiamo visto tutto?

Ciao Toni, innanzitutto spero che tu stia bene. Qui il sospetto é di non vedere tutto, di sapere sommariamente, malgrado il lavoro degli inviati tv. (Francesca)

Toni Fontana: Il problema è non accontentarsi della propaganda, anzi di contrastarla. Due esempi: quando sono arrivato da prigioniero a Baghdad ho letto sul giornale del partito che Umm Qasr, il porto sul Golfo, era ancora in mano irachena, ma io avevo dormito proprio lì e la città era pressocché totalmente nelle mani degli inglesi. A proposito di inglesi sono stati proprio loro a dirci che almeno in parte Bassora era sotto il loro controllo ed anche per questa ragione ho deciso con i miei colleghi di andare a vedere e così sono stato catturato. Penso che il ruolo dei giornalisti sia proprio quello di smascherare i trucchi e le falsità della propaganda. L’Unità, non solo sulla guerra, esprime un punto di vista fuori dal coro e mi ha offerto la possibilità di scrivere reportage dalle zone del fronte e di descrivere quella che non è stata una «marcia trionfale» verso Baghdad. Vorrei trovare lo spazio per parlarti dell’Iraq di un popolo eccezionale, laborioso, che aspira alla libertà. Purtroppo in questi anni ha subito una terribile dittatura e spaventosi bombardamenti. Vorrei consigliarti un po’ di ottimismo, ci vorrà molto tempo, forse anni, ma l’Iraq diventerà il paese-cardine in Medio Oriente e pian piano riuscirà a curare le profonde ferite aperte dalle bombe e dall’odio. Il disegno dietro questa guerra Ho marciato per evitare questo massacro di innocenti e penso che ho fatto bene, ero e sono contro questa guerra non per difendere un dittatore come Saddam Hussein.

Ma qual è il vero disegno geopolitico e/o economico che si nasconde dietro questa mossa? (Rita)

Toni Fontana: Credo e mi pare abbastanza ovvio che Washington avesse previsto quello che sta accadendo e cioè la scomposizione del mosaico etnico-religioso e sociale sul quale si sono retti gli equilibri in Iraq negli ultimi decenni e che Saddam ha tentato di governare con la repressione e la violenza. Ancor prima dell’attacco, quando mi trovavo in Kuwait, sentivo parlare di progetti e investimenti per la ricostruzione dell’Iraq che, allora, non era stato ancora distrutto. Ora ci sarà la corsa per la ricostruzione e chi si è schierato con Bush riceverà la fetta più grossa della torta. Il disegno americano è tuttavia molto più vasto, riguarda il riassetto complessivo della regione, gli effetti della guerra non tarderanno a farsi sentire in Arabia Saudita, Siria, Iran e negli stati del Golfo. Ma i guasti provocati dalla guerra sono destinati ad intralciare questi piani, non sarà facile individuare gli strumenti per ricomporre gli equilibri compromessi, per riavviare la macchina statale, i servizi essenziali, gli ospedali, l’esercito…. Ho ancora davanti agli occhi la Baghdad che ho visto sabato partendo, una città in preda alle vendette e all’anarchia.

A proposito di guardia repubblicana Che fine ha fatto la guardia repubblicana del regime? (Toninelli)

Toni Fontana: Non sono scomparsi, hanno combattuto anche con molta determinazione, l’Iraq appare oggi come un grande cimitero di mezzi e di carcasse della Guardia Repubblicana sconfitta, ma non umiliata. Come ho scritto in altre risposte la sproporzione dei mezzi in campo poteva condurre ad un solo epilogo come in effetti è stato. Molti soldati sono scappati ed hanno indossato abiti civili, si sono nascosti, Baghdad è piena di fuggiaschi e uomini che si nascondono, usciranno dalla clandestinità quando i tempi lo permetteranno: alcuni diventeranno ed anzi sono già diventati banditi (molti colleghi sono stati rapinati) e le violenze non sono finite. Sono certo che i lettori continueranno a seguire e leggere le cronache che arrivano a Baghdad, il momento più appassionante inizia forse ora perché si tratta di piantare buone e robuste radici sui crateri delle bombe, un’opera difficile, ma è questa l’occasione per rimboccarsi le maniche, le occasioni non mancano. A Baghdad ho incontrato Gino Strada, molti volontari sono pronti a mettersi in viaggio. Aiutiamoli.

La tua detenzione Perché siete stati fermati? Perché siete stati costretti alla detenzione e non immediatamente espulsi? Avete temuto per la vostra vita? (Roberta Ravagnan)

Toni Fontana: Mi fai tante domande, provo a rispondere schematicamente e in breve. Siamo stati fermati perché volevano realizzare un reportage su Bassora e verificare se, come sosteneva la propaganda americana (e come aveva titolato Repubblica) gli inglesi avevano il controllo della città. Abbiamo constatato che non era vero, ma purtroppo siamo stati arrestati perché avevamo un'auto con targa del Kuwait. Non ho mai pensato di morire anche perché sono un ottimista di natura, ma in molte occasioni ho temuto che qualcuno, magari un funzionario della polizia segreta, decidesse all’improvviso di confinarci in un carcere. Nel complesso i funzionari ci hanno trattato bene anche se non sono mancate le minacce e per 13 giorni non ho potuto fare nulla. Gli altri colleghi ci hanno aiutato, ci hanno messo a disposizione i loro telefoni e ciò ha alleviato la nostra prigionia. La cosa che più mi ha dato fastidio è stata la mancanza del passaporto perché mi ha fatto sentire una persona in balia di misteriosi funzionari dei servizi segreti. In tutti questi giorni ho sentito i terribili scoppi provocati dai bombardamenti e ho visto i bambini (molti profughi si erano rifugiati nell’Hotel) che si aggrappavano ai genitori quando cascavano le bombe. Giornalisti al fronte.

Questa è stata la guerra più seguita dal punto di vista dei media: in realtà di questa guerra si è visto esattamente quello che si vide delle precedenti: poco o niente. Mi domando: i giornalisti servono ancora a qualcosa oppure c'e' semplicemente la censura? (Fabio Ciuffi)

Toni Fontana: Per non ripetermi vorrei rispondere sulla questione dei giornalisti. Innanzitutto sono convinto che servono ancora. Questa guerra è stata seguita da due categorie di giornalisti: gli embedded hanno sottoscritto regole molto rigide ed hanno seguito la guerra letteralmente assieme ai soldati anglo-americani, accettando di fatto l’autocensura, ma inviando anche immagini e scritti dalla prima linea. Anche noi “unilateral” – accreditati cioè, ma non accettati o voluti nei reparti combattenti – abbiamo sottoscritto alcune regole imposte dagli americani per ottenere l’accredito (che ho poi distrutto quando sono stato arrestato) ma non le abbiamo rispettate. Non spetta a me dire quale risultato è stato ottenuto da tutti i giornalisti che si sono mossi in modo indipendente, ma la cosa importante è che la propaganda abbia fallito nel suo scopo che era ed è quello di raccontare all'opinione pubblica una guerra sempre vittoriosa e senza ostacoli. Quel che succede nella Baghdad del dopo-guerra è davanti agli occhi di tutti. La statua che va giù Il 9 aprile abbiamo seguito l'abbattimento della statua di Saddam Hussein come rappresentazione simbolica della caduta del regime.

Come tutti ho recepito il messaggio ma mi resta sempre il dubbio che gli Iracheni contenti di avere i soldati USA in casa non siano così numerosi come lo si vuol far apparire. (Prodeco)

Toni Fontana: Ero lì davanti alla statua di Saddam quando è caduta. C’erano poche decine di persone, direi poco più di duecento. In quelle ora la paura di ritorsioni e vendette era ancora molto forte, un amico iracheno mi aveva detto, pochi giorni prima, che avrebbe aspettato un mese prima di festeggiare perche voleva essere sicuro al 100% che gli spioni della polizia segreta fossero stati veramente sconfitti. Ho visto molta gente piangere e dire in lacrime che pur odiando Saddam non potevano accettare di vedere il loro paese schiacciato da cingoli dei carri armati americani. Sentimenti contrastanti si sono mescolati in quelle terribili giornate. Credo che la maggioranza degli iracheni stia aspettando di vedere che cosa accadrà, attende di vedere i nuovi capi e le loro proposte. Per ora la principale preoccupazione è il cibo e la ripresa del lavoro. La paura è finita, ma i guai no. La Baghdad che ho lasciato era percorsa da bande di ladri e saccheggiatori, mentre le rispondo sento una collega che legge un dispaccio di agenzia che a Baghdad è tornata l’acqua. E’ un segnale importante, ma le cose da fare sono tante e urgenti.

18 aprile 2003
pubblicato nell'edizione Nazionale de "L'Unità" (pagina 7) nella sezione "Interni"

Fonte: www.unita.it

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