Inizia nel mondo la guerra del cibo


Avvenire


Un’intera pagina, oggi, è stata dedicata dal quotidiano Avvenire ad uno dei più gravi problemi dell’umanità che crea sempre più fame e povertà: l’aumento dei prezzi dei beni alimentari di prima necessità.


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Inizia nel mondo la guerra del cibo

Prezzi da record e scorte a rischio Inizia nel mondo la guerra del cibo
DANIELE ZAPPALA

DA PARIGI E' allerta mondiale per l'inarrestabile fiammata dei prezzi delle derrate alimentari di prima necessità come riso, frumento e mais. II Programma alimentare mondiale (Pam) ha lanciato per primo l'allarme, chiedendo con urgenza un aiuto supplementare di 500 milioni df dollari per sfamare 73 milioni di persone. Per il segretario generale dell'Orni Ban Ki-moon, la crescente estensione delle superfici cerealicole destinate a produrre biocarburanti «è effettivamente uno dei fattori». Ma non il solo: «II prezzo elevato del petrolio ha accresciuto i costi di produzione e di trasporto. La produzione alimentare mondiale è stata colpita
quest'anno da siccità e altre calamità naturali. La crescita economica ha aumentato il consumo, soprattutto in Asia». «I prezzi alimentari mondiali sono cresciuti del 45% negli ultimi nove mesi e sul mercato cominciano a scarseggiare riso, frumento e mais», ha affermato il direttore della Fao Jacques Diouf intervenendo ieri al primo Forum mondiale dell'industria agro-alimentare a Nuova Delhi. A questi fattori, tanti esperti aggiungono la speculazione che ha fortemente Inciso ad esempio sul prezzo del riso. Una tonnellata si negoziava la settimana scorsa a 760 dollari, dopo un brutale rincaro del 30%. In Asia ed Africa, si tratta della base
alimentare di miliardi di persone. Per Ban Ki-moon, «a lungo termine occorrerà aumentare la produzione». Al contempo, l'Ue ha già annunciato di voler limitare la promozione dei biocarburanti. In proposito, si osserva che le sole superfici cerealicole statunitensi destinate a produrre etanolo potrebbero sfamare 250 milioni di persone. Per la Banca mondiale, occorre ormai un «New Deal aumentare mondiale» paragonabile a quello di Roosevelt del 1929. Se non si colma il deficit, hi certi Paesi si brucia un decennio di lotta contro la povertà.

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La crescente estensione delle superfici destinate a produrre biocarburanti è tra le cause principali della carenza di cereali. Il Pam chiede aiuti supplementari pari a 500 milioni di dollari per aiutare 73 milioni di persone. La Fao: «I costi degli alimenti sono cresciuti del 45% e sul mercato cominciano a scarseggiare» A
incidere su produzione e trasporti ci sono anche i forti rialzi del petrolio.

LE RIVOLTE PER FAME

Forni sotto assedio

Egitto, il caro-pane fa tremare Mubarak «Non è un problema solo nostro, in tutto il mondo è lo stesso», replica il presidente, ma il 4 maggio, giorno del suo compleanno è prevista una mobilitazione.

Non si arresta, in Egitto, la crisi innescata dall'aumento dei prezzi dei beni di sussistenza, in primis il grano e di conseguenza il pane -con un incremento pari anche a cinque volte il costo consueto diventata ormai lo spunto per proteste e rivendicazioni contro il regime quasi trentennale di Hosni Mubarak. «Non è un problema solo egiziano, in tutto il mondo è lo stesso», ribadisce il presidente quasi ottantenne cercando di stemperare i toni delle polemiche. Gli fanno eco gli esperti, citando tendenze globali, aumenti nella domanda di riso e granaglie nel Sud-Est asiatico, forte sviluppo del settore dei biocarburanti. Tutte spiegazioni in linea di massima corrette, ma che non soddisfano l'opinione pubblica, resa diffidente verso qualsiasi iniziativa del governo dopo decenni di informazione addomesticata. Per strada, nei mercati, nei posti di lavoro, i commenti si ripetono: «Dicono cosiì per tenerci buoni», «Pensano che queste scuse ci bastino», «Se anche fosse vero, noi soffriamo di più degli altri perchè il nostro è un Paese povero». E qualcuno chiede conferma di quello che sta succedendo nel mondo agli amici stranieri: «E' proprio vero che anche fuori -sottinteso, dall'Egitto- i prezzi sono aumentati così tanto?». Con un tasso d'inflazione ufficiale del 12,5% alla fine del mese di febbraio – «ma neanche loro sanno bene quanto sia quello reale», spiega una fonte diplomatica occidentale vicina al dossier finanziario – il Paese si trova ad affrontare una delle crisi più gravi da trent'anni a questa parte, per ironia della sorte proprio quando il Pii "galoppa" al ritmo del 7,5% annuo. Ma per le autorità egiziane, il pericolo maggiore è quello dell'instabilità sociale, nel caso in cui i massicci scioperi messi in atto nell'ultimo biennio dagli operai dei settori tessile, chimico, del cemento, dei trasporti, esercitino sulla popolazione un effetto di traino. La tensione, palpabile nel Paese, ha raggiunto il culminelo scorso 6 aprile, giorno di sciopero nel complesso industriale di Mahalla elKubra, nel Delta del Nilo. Già in passato protagonisti di proteste andate a Duon fine, i 27mila dipendenti del maggiore polo tessile in Nord Africa e Medio Oriente avevano annunciato l'intenzione di rivendicare salari e condizioni lavorative migliori con largo anticipo, chiedendo il sostegno dei cittadini. Una mobilitazione nazionale pacifica – da cui i partiti di opposizione si sono astenuti, lasciando alla società civile l'organizzazione delle manifestazioni -che il governo del premier Ahmed Nazif ha spento sul nascere ovunque, nel timore di perdere il controllo del Paese. Ora il primo ministro promette investimenti a 360 gradi, innanzitutto per elevare gli stipendi degli operai alla soglia minima di 1200 lire mensili, pari a circa 140 euro (una porzione di pane non calmierato dai sussidi statali costa circa mezza piastra, ndr), ma le immagini degli operai caricati dagli agenti anti-sommossa all'interno del complesso industriale sono ancora fresche nella memoria dei cittadini grazie all'ampia diffusione di internet e telefonini. Una nuova giornata di mobilitazione nazionale per protestare contro la crisi economica e rivendicare il rispetto dei diritti civili è attesa per il 4 maggio, 80esimo compleanno di Mubarak.

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Crisi del riso in Asia
La Thailandia controcorrente lancia la sfida agli aumenti
STEFANO VECCHIA

DA BANGKOK ei giorni scorsi la Thailandia, maggiore Paese esportatore di riso del pianeta, ha lanciato la sua sfida controcorrente rispetto a un mercato che sembra preda di una accelerazione incontrollata nei prezzi del prodotto. Bangkok ha confermato di non volere ridurre le sue vendite all'estero, lasciando tuttavia al mercato di decidere destinazione e prezzo del prodotto. La Thailandia ha venduto lo scorso anno a numerosi Paesi dell'Asia e dell'Africa 9,4 milioni di tonnellate della sua produzione di circa 20 milioni di tonnellate d riso lavorato, una quantità equivalente al consumo interno dei suoi 60 milioni di abitanti. Tuttavia il governo thailandese si trova ad affrontare una forte richiesta anche da Paesi, dal Medio Oriente all'Africa, che tradizionalmente non erano suoi clienti e dallo scorso ottobre ha esportato mensilmente una media di 1,1 milioni di tonnellate di riso. Ieri il primo ministro Samak Sundaravej ha anticipato con fermezza che le riserve interne di 2,1 milioni di tonnellate, resteranno in patria. Il rischio è infatti, che il prezzo, già sottoposto a forti pressioni interne, schizzi verso l'alto senza un adeguato calmiere costituito appunto dalle riserve, utili anche a frenare fenomeni speculativi. Samak ha anche rassicurato Hong Kong, che dipende dalla Thailandia per il 90% delle sue importazioni di riso, sulla copertura del suo fabbisogno. Nelle scorse settimane i supermercati dell'ex colonia britannica sono stati svuotati di un prodotto il cui prezzo è ,salito del 30% in pochi giorni, creando il panico tra i 7 milioni di abitanti. L'impennata del prezzo del riso di lunedì scorso, quando ha ragfiunto il suo nuovo record moniale alla borsa di Chicago, registrando un aumento del 10% nelle ultime due sedute e del 50% in sole due settimane, ha mostrato chiaramente lo stato di crisi di un prodotto alimentare che fornisce il nutrimento primario a metà della popolazione mondiale. Ed è scattata la corsa all'accaparramento, mentre Paesi più deboli a fatica riescono a stringere accordi come quello del Bangladesh con l'India per 400mila tonnellate di riso a prezzo di favore. Dietro a questo fenomeno apparentemente inarrestabile, che sta già spingendo il prezzo a 750 dollari la tonnellata e, in previsione, ai mille dollari entro la fine dell'anno, sembrano esserci diversi fattori, interconnessi l'uno all'altro. Condizioni atmosferiche avverse, innanzitutto. Poi, la domanda crescente, a fronte di una produzione rimasta sostanzialmente invariata negli ultimi 25 anni, l'aumento del prezzo del petrolio e la corsa a combustibili alternativi che si basano su coltivazioni sostitutive rispetto alle aree risicole. Caso emblematico è oggi quello delle Filippine, destinate a importare quasi per intero il riso per gli 85 milioni di abitanti, pur trovandosi un una fascia climatica e in condizioni geografiche favorevoli alla risicoltura. Qui, nonostante le crescenti proteste della popolazione, che fatica ad affrontare i continui aumenti dei generi alimentari, il Parlamento ha da poco approvato la Legge sui biocombustibili per incentivare e sussidiare la produzione di questi prodotti, in particolare la palma da olio. Oggi il governo di Manila è costretto ad appellarsi alla buona volontà di vicini -come il Vietnam, ma lo stesso vale a livello globale per India ed Egitto, grandi esportatori oggi in affanno- che a loro volta vedono assottigliarsi le scorte, ma anche ad adottare provvedimenti coercitivi verso eventuali accaparramenti.

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Tensione ad HAITI
In piazza contro i rincari Attaccati i mezzi dell'Orili
Raddoppiati in un anno i costi dei beni, al 70% di provenienza straniera. Sono già 5 le vittime delle violenze di strada
PAOLO M. ALFIERI

Centinaia di persone in piazza, cinque morti, il palazzo presidenziale preso d'assalto, la missione Onu sotto scacco. Haiti sta vivendo giornate di tensione causate dall'aumento vertiginoso dei prezzi dei beni alimentari.
In un anno il costo di riso, legumi e frutta è cresciuto del 50%. In un contesto in cui l'80% della popolazione vive con meno di due dollari al giorno gli aumenti si sono tradotti in una sollevazione per fame. Le autorità promettono aiuti e investimenti, con l'obiettivo di ridurre il costo della vita Ma le promesse a troppi, soprattutto a coloro che imputano le colpe della crisi attuali allo stesso esecutivo e che invocano ad esempio il taglio delle tasse sui prodotti alimentari, sono sembrate blande e tardive. Le manifestazioni erano iniziate già la settimana scorsa a Les Cayes, nel Sud del Paese, dove erano stati presi di mira il sindaco Pierre Yvon Chery e i mezzi della missione Onu Minustah. Da lì il fuoco della protesta si è propagato nella capitale Port-au-pnnce, dove sono stati incendiati negozi e uffici. Centinaia i dimostranti che hanno eretto barricate nella città e marciato verso il palazzo presidenziale. In molti agitavano piatti vuoti, a evidenziare il motivo delle proteste, ma non sono mancati episodi imputabili alla criminalità comune, pronta ad approfittare del caos. «La città è nell'anarchia -riferisce ad Avvenire da Port-au-prince, Carlo Zorzi, responsabile nel Paese dei programmi educativi e agricoli avviati dall'ong italiana Avsi- La popolazione non ha creduto alle promesse dei politici e chiede invece un programma economico serio. Non servono palliativi populisti, ma politiche che rilancino davvero la produzione». «La gente ha fame – sottolinea Zorzi – Non riesce più a comprare nulla, mentre l'agricoltura locale è allo sbando. Così Haiti subisce l'aumento dei prezzi dei beni alimentari importati, che ammontano al 70% del totale. Neanche le rimesse della diaspora, e parliamo di 1,8 miliardi di dollari, una somma superiore al bilancio statale, bastano più». La Minustah ha inviato a Les Cayes, dove si registrano almeno 20 feriti e 5 morti, un centinaio di militari di rinforzo, ma ciò non ha evitato che la base dove sono ospitate le truppe straniere fosse presa d'assalto dalla folla, per nulla intimorita dai colpi di avvertimento sparati in aria dai caschi blu. Testimoni oculari hanno denunciato che un giovane manifestante è morto proprio a causa di un proiettile alla testa sparato dai militari Onu. Il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Kimoon ha esortato alla calma, mentre il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, pur condannando le violenze, ha invocato un «impegno speciale» per prestare immediata assistenza alimentare alla popolazione.
«Il movimento è stato rovinato dall'intromissione di delinquenti che nulla hanno a che vedere con le legittime richieste della popolazione – ha osservato il parlamentare Gabriel Fortune – Non si può uscire di casa, la situazione è degenerata e sembra stia volgendo al peggio». Anche il premier, Jacques Edouard Alexis, ha sottolineato che le manifestazioni di massa sono state «infiltrate da individui legati al traffico di droga e da altri trafficanti». Le autorità hanno annunciato due giorni fa che saranno tollerate soltanto le manifestazioni parifiche. Ieri la popolazione ha atteso per tutto il giorno un discorso del presidente Preval, il quale si è limitato a impegnarsi a sostenere per il futuro le produzioni locali ma senza annunciare alcuna misura immediata. C'è intanto chi ipotizza dimissioni ad alti livelli, chi addirittura invoca un improbabile ritorno dell'ex presidente Aristide.

Fonte: Avvenire, pagina 5

10 aprile 2008

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