Incognita kosovara


Emanuele Giordana - Lettera22


Le tensioni, con la Serbia, la Russia e adesso persino la Cina, erano largamente annunciate. Ma non erano forse prevedibili tutti i sommovimenti che, dalla Georgia all’Armenia, agitano i sogni secessionisti di piccole province, enclavi etniche, minoranze scalpitanti. I rischi connessi a un precedente che basa il diritto internazionale su quello del sangue.


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Incognita kosovara

A due giorni dall’indipendenza del Kosovo, decisa unilateralmente dal parlamento di Pristina ma largamente appoggiata da alcuni paesi europei (tra cui l’Italia) e dagli Stati Uniti, gli incerti scenari della politica internazionale non promettono nulla di buono. Col senno di poi si potrebbe dire che le tensioni, con la Serbia, la Russia e adesso persino la Cina, erano largamente annunciate. Ma non erano forse prevedibili tutti i sommovimenti che, dalla Georgia all’Armenia, agitano i sogni secessionisti di piccole province, enclavi etniche, minoranze scalpitanti.
Quel che appare abbastanza evidente è che Belgrado non imbraccerà il fucile e si limiterà a forti pressioni diplomatiche utilizzando le armi che il diritto internazionale le garantisce: ritiro degli ambasciatori, congelamento delle relazioni, boicottaggio delle merci, ritorsioni commerciali. Ma la forte instabilità già evidente nella regione dove vive la minoranza serba del Kosovo, divisa per altro in diverse piccole enclavi ma riunita soprattutto a Nord di Mitrovica, promette una stagione di tensioni all’interno della quale una qualsiasi testa calda, come già si è visto con le esplosioni nella città divisa dal fiume Ibar l’altra notte, può gettare il fiammifero che incendierà la benzina.
Quando era in corso la trattativa sullo status finale del Kosovo era apparsa, tra le opzioni, la divisione del territorio kosovaro in modo tale che la porzione etnicamente serba potesse andare con la Serbia. Venne rifiutata da Belgrado e non piaceva a Pristina ma adesso potrebbe tornare nuovamente su un tavolo negoziale che stenta a raffreddarsi. Questa soluzione in compenso porta con sé un’ennesima sottolineatura etnica, un diritto del sangue che le ragioni della politica dovrebbero invitare a superare. Ma il paradosso dei nostri tempi difficili è che, mentre la globalizzazione con tutti i suoi difetti rende comunque il mondo sempre più aperto, si va riaffermando un diritto identitario esasperato che non avrebbe davvero più senso di esistere. Il fatto è che sancire la divisione del Kosovo dalla Serbia ha già dato ragione a chi ritiene che i confini siano modificabili attraverso l’analisi della purezza del sangue anche se un’analisi attenta del nostro dna potrebbe dimostrare al contrario, e fortunatamente, che ognuno di noi porta i segni di culture spesso lontane e diversissime e che l’unico criterio che dovrebbe contare è quello della cittadinanza. Un po’ come avviene quando cambiamo residenza: conserviamo in parte le nostre abitudini culturali e alimentari, ma di fatto apparteniamo al comune in cui abbiamo scelto di vivere e siamo sottoposti alle sue regole, riguardino gli asili nido, la tasse sull’immondizia o le direttive della vigilanza urbana.
Quel che si ricava dalla vicenda kosovara è che è estremamente pericoloso rimettere in discussione i confini e lo diventa ancor di più quando la ragione poggia sull’identità etnica e sulla purezza del sangue. Il mondo ha bisogno di un nuovo patto fra i suoi abitanti che riconosca le diversità ma non ne faccia una bandiera escludente. In fondo è questo il patto su cui è nata tra mille difficoltà l’Europa comunitaria. Che nel caso del Kosovo, come si vede in queste ore, ha lanciato però un duplice messaggio che sembra far fare anche a noi un passo indietro.


Fonte: Lettera22

Questo commento è uscito anche su La Nuova Sardegna

09 febbraio 2008 

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