In Somalia chi fa il giornalista rischia la vita
Enzo Nucci
Nel paese più pericoloso del mondo (come è definito all’unanimità dalle cancellerie diplomatiche internazionali) diffondere notizie mette a repentaglio chi lo fa.
In Somalia chi fa il giornalista rischia la vita. Nel paese più pericoloso del mondo (come è definito all’unanimità dalle cancellerie diplomatiche internazionali) diffondere notizie mette a repentaglio chi lo fa. Ne ho avuto una ulteriore conferma nel giugno scorso quando sono stato per 10 giorni a Mogadiscio per realizzare un reportage di un’ora per gli “Speciali del Tg1”. Nel documentario ho dato voce ai giornalisti dedicando al loro lavoro un ampio spazio.
Suleyman Ismail, dell’Unione Nazionale dei Giornalisti Somali, mi raccontò che i mandanti di questi omicidi non sono solo gli Shabaab (ovvero gli integralisti vicini ad Al Qaeda) ma anche i politici che siedono nel “democratico” parlamento di Mogadiscio. Il timore è appunto la diffusione di notizie che possano danneggiarli e queste purtroppo non mancano. Dagli stipendi non pagati per mesi a polizia e dipendenti delle dogane (perché il denaro versato dagli organismi internazionali che sostengono il governo viene indebitamente trattenuto da un ceto politico corrotto), alle concitate trattative per l’elezione del presidente lo scorso anno sostenute da robuste iniezioni di soldi per acquistare i voti necessari. E poi c’è il controllo degli aiuti internazionali destinati ai profughi e per la rinascita del paese. Un oceano di denaro che fa gola a tutti in un paese che da 23 anni conosce solo la violenza. Senza dimenticare che almeno una ventina di “signori della guerra” siedono in parlamento e che dunque rivestono un ruolo istituzionale.
Nel 2012 furono uccisi 18 giornalisti, di cui 14 a Mogadiscio. E fino a giugno erano già 5 i reporter caduti sotto i colpi dei sicari. L’anno peggiore è stato il 2007 quando centinaia di cronisti si rifugiarono all’estero e non sono più tornati. Nei giorni scorsi la notizia di un nuovo giornalista ucciso e di due radio chiuse con la forza dal governo sostenuto dalla comunità internazionale con motivazioni pretestuose.
Nasriin Mohamed Ibrahim, donna-giornalista di Radio Mustaqbal, sottolineava nel nostro incontro che sono gli uomini i più esposti perché più numerosi, più esposti professionalmente e più facilmente individuabili. Una donna – mi spiegava – grazie al velo può più facilmente sfuggire agli aggressori ma non mancano comunque donne reporter che hanno pagato con la vita il loro impegno.
7 televisioni, 30 radio (ma ne aprono di nuove ogni giorno), 4 quotidiani, un settimanale e centinaia di siti web costituiscono il panorama informativo di un paese in cui paradossalmente la libertà di espressione è garantita dalla costituzione approvata dal parlamento. Ma Salad Gedi Ali, giornalista di Royal Tv, mi puntualizzava che questa legge non trova nessuna applicazione concreta perché nei fatti non è possibile raccontare liberamente che succede nel paese: lo spettro della morte è dietro l’angolo.
Oggi più che mai è necessaria una mobilitazione della comunità internazionale per sostenere la libertà di espressione in Somalia anche alla luce degli impegni politici ed economici che l’Unione Europea si è assunta per dare una chance di rinascita ad un governo già fortemente minato dalla presenza dei fondamentalisti islamici che governano gran parte della nazione. Senza una “educazione” alla liberà non può esserci progresso.
Per questo il Circolo di Nairobi di “Articolo 21” aderisce alla raccolta di firme di Change.org per fermare le violenze contro i giornalisti somali e le pressioni del governo.
Fonte: www.articolo21.org
1 novembre 2013