In memoria di monsignor Pietro Sambi
Paola Caridi - invisiblearabs.com
Monsignor Pietro Sambi è morto ieri sera a Baltimora. Era stato nunzio apostolico a Gerusalemme, prima di essere ‘promosso’ negli Stati Uniti. Era un diplomatico finissimo, un pastore sereno. E un amico caro.
Lo chiamavamo così. Monsignore. In famiglia, tra i suoi amici. Monsignore. Monsignor Pietro Sambi, nunzio apostolico a Washington. E’ morto ieri sera, in un ospedale di Baltimora, negli Stati Uniti, per le complicazioni di una delicata operazione al polmone.
Era uno dei migliori diplomatici italiani. Non solo vaticani. Un grande diplomatico, un uomo chiamato – nel corso degli anni – a lavorare in situazioni delicate, perché in quelle situazioni c’era bisogno di chi aveva, tra le pieghe del suo sorriso sempre pieno, l’abilità di un ambasciatore di polso. Aveva cominciato, non a caso, a Gerusalemme, con Pio Laghi. Era passato attraverso quella che riteneva un’esperienza fondativa, come la nunziatura apostolica a Cuba. Era stato inviato in Nicaragua a riaprirla, la delegazione apostolica, quando la pista dell’aeroporto di Managua era ancora parzialmente in disuso. Era stato inviato in Burundi, pochi anni prima del cambio di sistema politico, dell’arrivo al potere degli hutu e dello scoppio della guerra civile. Ricordava spesso che colui che fu presidente per pochi mesi, in Burundi, Cyprien Nataryamira, prima di essere ucciso nell’attentato che nel 1994 diede la stura alla guerra civile ruandese e burundese, lo aveva chiamato, quando era stato designato, dicendo a monsignor Sambi “Si ricorda di me? Ero uno studente, quando l’ho conosciuta…”.
Era stato in Indonesia, sino al momento della fine del regime di Suharto e della rivoluzione indonesiana. Ricordava di averlo incontrato, e di avergli consigliato un passo indietro, proprio per facilitare la transizione. Era poi ritornato a Gerusalemme, nel 1998. Aveva preparato la difficile e delicata visita di Giovanni Paolo II a Gerusalemme. Visita molto più difficile di quella compiuta, poi, da Benedetto XVI. E di quella visita, amava ricordare quando il Papa, fuori da tutti i protocolli, volle ritornare al Calvario. Era un uomo malato, Giovanni Paolo II, e chi conosce Gerusalemme conosce anche quei gradini che portano al Golgota. Alti e difficili per un giovane. Dopo aver superato tutte le diffidenze della sicurezza israeliana per una visita fuori protocollo, monsignor Sambi accompagnò il pontefice, e disse di averlo visto come circondato da un’aura, mentre saliva quei gradini, con una forza che nessuno avrebbe potuto prevedere.
Era stata una visita difficile, quella. Il pontefice e Yasser Arafat, entrambi affetti dal morbo di Parkinson, assieme, per mano, in un campo profughi di Betlemme. Quei profughi, praticamente tutti musulmani, si recarono, dopo la morte di Giovanni Paolo II, alla Basilica di Natività. Per rendere omaggio al Pontefice. “Lui era venuto da noi. E noi ora andiamo da lui, per rendergli omaggio”, dissero a monsignor Sambi. Vide la costruzione del Muro di Separazione, fece quello che poteva per salvare conventi e proprietà da quella ferita di cemento che si stava incuneando sulla terra palestinese. Non aveva paura di essere critico nei confronti di Israele, mantenendo tutta la sua capacità diplomatica. Un uomo che, nella riunione dei consoli europei a Gerusalemme, è mancato moltissimo, quando è stato promosso e inviato a Washington.
Poco prima della sua partenza, ci incontrammo in un luogo che descrive bene la sua conoscenza degli uomini e dei posti in cui viveva. Il barbiere. Un barbiere musulmano, nel cuore di Gerusalemme est. Il ‘nostro’ barbiere. Gli feci i complimenti, per la sua nomina negli Stati Uniti. Lui mi rispose che “dopo Gerusalemme non c’è promozione, come disse il generale Allenby”. Chissà se la citazione è giusta. Ma a me, francamente, non interessa tanto. Quella sua frase descriveva il suo attaccamento a Gerusalemme e alla Terra Santa, così come raccontava del suo lavoro, nascosto, dietro le quinte, che in pochi conoscono e che invece è continuato – a distanza – anche dopo il suo trasferimento a Washington. Il barbiere ha continuato per anni a chiedermi di Abuna Boutros, di Padre Pietro, come lui chiamava Monsignor Sambi. E mi chiedeva sempre di salutarlo, di mandargli il suo saluto affettuoso, a un uomo buono, a un uomo intelligente, a un uomo che stimava.
E’ così, dal barbiere, che si fa il dialogo interreligioso e soprattutto si conoscono gli uomini. Monsignor Sambi lo sapeva bene, così come sapeva parlare con chi, invece, il potere ce l’ha. Era un uomo che leggeva, si informava, conosceva la realtà, interpretava la politica, non perdeva mai il contatto anche con la cronaca. Perché, e anche questo amava ricordarlo, era stato un insegnante di storia. E la Storia continuava ad amarla e rispettarla.
Era, soprattutto, un sacerdote e un pastore. Un uomo che capiva gli altri da un gesto, da una semplice parola, da uno sguardo. Un fine psicologo e un prete, che comprendeva e consolava. E’ il tratto che più ho amato, in questi anni di conoscenza e di amicizia. Uno dei ricordi più intensi è stata la lavanda dei piedi del giovedì santo, officiata da lui a Gerusalemme, nella cappella del Notre Dame. Non eravamo in tanti, la solita piccola comunità internazionale di Gerusalemme. Lui lavò i piedi degli uomini che erano seduti davanti all’altare con coscienziosità. Li lavò, non fece finta di lavarli. Con serenità e umiltà. La stessa serenità che gli ho visto sul viso un anno fa, nel suo paesino natale, a Sogliano sul Rubicone, luogo che ha amato con tutto il cuore. Officiò la messa nella chiesetta accanto alla sua bella casa, affacciata sulle colline che videro anche la Resistenza al nazifascismo. Era il suo compleanno, il 27 giugno. C’erano i suoi fedeli, i suoi vecchi compagni di scuola, i suoi paesani, e una famigliola che arrivava da Gerusalemme. Perché i legami bisogna conservarli, e Gerusalemme è un posto che segna. Era sereno, era allegro.
La Chiesa perde un uomo raro. E a me dispiace molto avere perso un amico.
Dal blog di Paola Caridi http://invisiblearabs.com/
28 luglio 2011