Ilaria Alpi e i doveri dell’informazione
Roberto Saviano
Roberto Saviano su “La Repubblica” sul Premio Ilaria Alpi scrive: “Questo Premio mi è caro perché ci ricorda l’importanza della professione del racconto, e se si riuscirà a percorrere la strada tracciata da Ilaria Alpi, significherà per me aver fatto molto.
Il significato che attribuisco a questo Premio è non solo motivato dalla fine tragica di Ilaria Alpi, che ha pagato con la vita la ricerca per la verità. Ma anche dalla vita stessa di Ilaria Alpi che conta molto di più della sua morte. Quando si cade, quando si muore per il proprio lavoro, la morte, la tragedia, assolutizzano tutto, e spesso è solo quell’evento tragico a rendere nota la persona scomparsa. Nel caso di Ilaria Alpi, mi piace ricordare che a far paura è stato il suo talento di giornalista, di ricercatrice, di comunicatrice, da viva. Ilaria Alpi era giornalista televisiva: e il suo ricordo in questi mesi difficili per il giornalismo del paese, diviene ancora più necessario. Ecco perché l’esistenza di questo premio, e poterlo ricevere, mi fa star bene. Perché non è soltanto memoria – cosa peraltro fondamentale – ma è un’indicazione. È intraprendere una strada per scardinare certi meccanismi di potere. Il talento di Ilaria Alpi è quello che mi piace ricordare ed è quello che credo possa essere, come per Giovanni Falcone, il suo vero lascito. Falcone non è stato solo un giudice di coraggio e di schiena dritta, ma è stato un genio del diritto, ed è stato ucciso come Ilaria Alpi, per la sua bravura. Ricordarlo, significa dirci che abbiamo il dovere di essere bravi. Certo dobbiamo indignarci, ne abbiamo il diritto. È necessario protestare, ma dobbiamo anche e soprattutto fare bene il nostro lavoro. L’unica speranza che vedo per il nostro paese è proprio questa: contare sulla nostra bravura. L’Italia è piena di talenti, bisogna ripartire da lì. Ricevere questo premio è come ricevere un ordine: sii sempre migliore. In queste ore difficili per il giornalismo italiano ci si trova dinanzi alla difficoltà di dover difendere la qualità del racconto. Di difendere le parole. Di non farle divenire estorsione, ricatto, meccanismo in mano ai faccendieri. La credibilità del giornalismo si perde quando non approfondisce, quando non rispetta, quando non conferma, quando non ricerca. Media non credibili generano una democrazia a rischio.
Il risultato è che la tv pubblica, viene condannata a un decadimento inevitabile. L’abbassamento progressivo della qualità dei giornalisti o degli showmen vicini al governo in questi anni ha prodotto trasmissioni mediocri e spesso imbarazzanti. Mediocri non perché filoberlusconiani, ma perché superficiali, miopi zoppicanti: insomma ciò che rende il Tg1, spesso imbarazzante ancor prima della evidente posizione filogovernativa, è l’inconsistenza dell’approfondimento, la spregiudicatezza dell’omissione. I giornalisti uccisi nel mondo sono moltissimi ogni anno, e questo dato, impressionante, deve far capire il valore della comunicazione. Spesso tutto passa sotto silenzio perché il giornalismo in molti casi è diventato un lavoro orrendo. La coscienza il giornalista se la fa a seconda del giornale in cui hai trovato un buco dove scrivere, un’opportunità di lavoro. E vengono definiti giornalisti spesso semplici estorsori uffici stampa di gruppi di potere. Ma dinanzi alle stragi di giornalisti, dinanzi alle continue censure, si riaccende d’improvviso la luce su un mestiere, si comprende il peso specifico delle parole, si comprende che la condanna arriva quando superi la linea d’ombra, quando una storia non è più solo per addetti ai lavori e non può più essere relegata a spazi angusti. È importante riflettere su questo perché oggi, a torto, si ritiene che si possa dire tutto in totale libertà: non è così. Puoi dire tutto a una condizione. Che nessuno ti legga o ti ascolti. Che le tue parole siano ignorate. In quel caso c’è il massimo della libertà d’espressione. È il talento che riesce a veicolare alle persone una storia. È il talento il pericolo. È il talento ciò da cui la ricerca, la comunicazione nuova, in Italia, deve ripartire.
Del resto io sto parlando dall’Italia, non dal Nicaragua, né dalla Somalia. Non dalla Libia, non dall’Iran non dalla Cina o da Cuba. Nessuno di noi crede di vivere in un paese in cui non si ha il diritto di parola. La censura da noi è cosa diversa. Non è eliminazione, è abbassare il volume della tua voce in modo che tu non possa essere sentito. Questo avviene soprattutto per le trasmissioni televisive scomode per il governo. Ciò che si vuole ottenere sono meno mezzi per meno uomini, meno contratti e di conseguenza meno storie raccontate, meno opinioni espresse, meno dibattito.
Oggi il successo lo decretano share e copie vendute e questo rischia di non permettere di sperimentare. Si rischia di cristallizzare il livello dei prodotti che siamo in grado di offrire, perché per paura di perdere share e non vendere copie si sperimenta meno. E se non superi la linea d’ombra, non esisti. Se le trasmissioni Rai invise al governo dovessero avere una flessione di ascolti, avrebbero vita ancora più difficile, quindi la condizione necessaria per continuare a lavorare è mantenere sempre un enorme successo. Lo share è dato da un pubblico attivo, si tratta di cittadini e non solo di mercato. È cittadino chi non condivide, ma fa partire la riflessione, chi anima il dibattito, chi riflette su un argomento che non aveva mai approfondito prima. Lo spazio televisivo non vuole educare ma essere uno spazio di condivisione. I poteri invece oggi vogliono solo tifo. Non si tratta di fare moralismo letterario, ma la politica è tifo nella misura in cui impedisce il ragionamento, che avviene soprattutto nel dissenso, nel non condividiamo ma ragioniamo.
Il ruolo dell’informazione oggi è cruciale se riesce a fornire spazi di approfondimento e non semplicemente giochino di opinioni. E questo Premio mi è caro perché ci ricorda l’importanza della professione del racconto, e se si riuscirà a percorrere la strada tracciata da Ilaria Alpi, giornalista televisiva, significherà per me aver fatto molto.
Fonte: La Repubblica
28 giugno 2011